Il cupo «Wozzeck» fiorisce con Gatti

da Milano

Da ascoltare, non è chic ma inutile negarlo, Wozzeck chiede passione, competenza e pazienza. La storia grigia che sprofonda nel nero, desolazione, incubi, pazzia, palude e sangue, il poveretto costretto a esperimenti medici, tradito dalla moglie, uccisore di lei come per costrizione fatale, che si lascia coprire dalle acque mentre cerca il coltello insanguinato, è avvincente più che non attraente, impressionante più che non invogliante. Le parole pronunciate sono squallide e terribili. La musica, composta da Berg a un quarto del secolo scorso, quando, secondo il verbo di Schönberg azzerava le leggi della musica tonale tradizionale, ci urta non tanto per la malata violenza delle dissonanze, quanto per non potere seguire con la mente gli intrichi e la loro logica. Si avverte la tensione dell'opera ispirata e straordinaria, e bisogna avere volontà di proseguire per esserne alla fine premiati.
Da vedere in teatro, invece, è ormai un classico capolavoro. La perentoria drammaticità, la fulminea creazione del clima, il brivido della solitudine dei poveri personaggi che nemmeno l'orchestra e forse nemmeno la musica possono salvare impongono una tragicità che avvolge lo spettatore prima d'ogni sua reazione. Tutto procede inesorabile. Alla fine, le forme classiche della storia musicale che compongono l'ossatura dell'opera finiscono per lasciare un senso di ordine, di compiutezza.
La Scala ha ripreso lo spettacolo con la scenografia a sezioni cilindriche di Erich Wonder, come a dire un mondo immobile che è indifferente mostrare nella sua concretezza, e i costumi popolani attenti al grigiore dei personaggi, di Florence von Gerkan, nella regia di Jurgen Flimm, che ha scatenato i cantanti in una recitazione precisa che definisse i ritratti di ciascuno. Spettacolo coerente e realizzato con sapienza. Ma purtroppo questi ritratti sono grotteschi, prevale una stilizzazione meccanica delle persone; e così ciascuno è quello che fa nell'azione, senza un retroterra umano, alla fine sappiamo di lui solo quello che gli abbiamo visto fare.
Anche Daniele Gatti accentua o concede nella vocalità i falsetti estremi, le caratterizzazioni caricaturali, negli uomini attorno a Wozzeck, Erich Wottrich, Marlin Miller, Wolfgang A. Sperrhacke e Markus Marquardt, che si comportano come specialisti, e che forse potrebbero accordare meglio la loro fantasia con il meglio della concertazione di Gatti; che è invece un dominio classico della partitura, un respiro ampio e quel tanto di contrasto fra le zone pausate e quelle precipitate che ci spinge verso una riflessione più ricca.

Per la quale sembrerebbero portati anche Evelyn Herlitzius, che ha momenti di confessione intima improvvisi, straordinari, in una interpretazione agitata, e il guizzante, maldestinato e musicalmente preciso protagonista Georg Nigl, Wozzeck che più Wozzeck non si può. Gatti ha fatto figurare eccellentemente coro e orchestra, e tutti sono stati festeggiati.

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