D’Alema sposo per ordine del Pci

Il dolcevita e il capello scarmigliato, l’aria riottosa del giovane che ce l’ha coi vecchi perché vuole cambiare il mondo, qualche molotov ogni tanto, i blitz contro i borghesi, la tensione con la nomenklatura del partito, il suo... Sì però, quando il partito comanda, si ubbidisce, anche se dispone sulla cosa più privata. La segreteria decide, il compagno esegue. Togliatti con la Iotti e l’aborto di partito, D’Alema con la convivente, sposata per forza in ossequio alle direttive di Botteghe Oscure. C’è questo buco nel mito del D’Alema giovane rivoluzionario, quello degli anni pisani alla Normale, del movimento studentesco, delle assemblee burrascose, delle denunce per blocco ferroviario e dei primi amori anti-borghesi. Un buco che dice qualcosa sulla cattiva coscienza del Pci e dei suoi eredi.
È una vecchia storia, che si legge nelle biografie di Max (quelle di Giovanni Fasanella e di Alberto Rapisarda), e che ieri ha rispolverato un vecchio amico dell’ex segretario Pds, Fabrizio Rondolino, intervistato da Luca Telese sul Fatto. L’epopea dell’enfant prodige del Pci, di cui si tramandano leggende di autonomia rivoluzionaria (quando a 6 anni, in prima elementare, si rifiutò di partecipare alle lezioni di religione contestando «la solita propaganda democristiana della maestra»), si ridimensiona un po’ (e con la sua anche l’immagine del partito) alla luce di un altro fatto, il matrimonio celebrato obtorto collo nel 1973 con la compagna degli anni pisani, Gioia Maestro. Stavano insieme, vivevano nella stessa casa ma senza essere marito e moglie.
Un’anomalia imbarazzante per una coppia cattolica, non certo per due giovani comunisti, per giunta negli anni in cui la sinistra si batteva per l’emancipazione della donna e per il divorzio. Eppure la ragione di partito, che qui sconfina nell’ipocrisia della doppia morale, impose la regola bacchettona per cui conta innanzitutto la forma: si salvino le apparenze. «Me lo ha raccontato lo stesso Massimo - ha svelato Rondolino - . Gli fecero questo discorso: “Caro compagno, tu sei libero di fare quello che vuoi, ma adesso hai un ruolo pubblico, sei consigliere comunale, quasi capogruppo...”. Gli chiesero di regolarizzare la sua situazione. E lui lo fece». Suppergiù quel che sarebbe successo nella Dc, ma quello era il Pci. La direttiva comunista imponeva che il dirigente potesse avere macchie nel privato, purché non fossero visibili. Ma il complesso di superiorità morale gioca brutti scherzi. Se la condotta privata non è all’altezza, si possono scoperchiare vicende imbarazzanti. Oppure, se si scoprono in tempo, ci si mette una toppa nascondendo il peccato sotto un paravento di moralità, come è accaduto con l’aborto imposto alla Iotti o con le nozze coatte di D’Alema. Tutto, purché sia salva l’apparente superiorità morale, in un gioco di prestigio che sa di ipocrisia.
A Max, che neppure a 25 anni era di primo pelo nel Pci (ci era entrato da poppante con l’Associazione Pionieri italiani, le giovani marmotte del partito...), lo avrebbe spiegato chiaramente Enrico Berlinguer, che lo volle con sé per i funerali a Mosca di Jurij Andropov: «Vedi, questa è la prima legge generale del socialismo reale. I dirigenti mentono, sempre, anche quando non sarebbe necessario», spiegò il segretario del Pci al trentenne dirigente comunista.
D’Alema doveva sposare la sua compagna, e lo fece, ubbidendo all’ordine, come un funzionario con i suoi superiori. Ci fu solo un timido tentativo di resistenza al verdetto del partito: «Non abbiamo nemmeno i soldi per il rinfresco...». Ma la faccenda si risolse in fretta, pagandogli le spese delle nozze con le finanze comuniste. Una parentesi di libertà subito sedata dal diktat dell’apparato. In fondo quella relazione (divorzierà poco dopo) e l’irregolarità della convivenza, erano solo un frutto fugace del clima sessantottino, che attraeva il giovane D’Alema inimicandogli parte della dirigenza: «Al congresso del ’68 il Pci decise di mettere uno studente nel Comitato centrale. Scelsero Mussi perché era considerato più affidabile, io ero visto come un estremista un po’ stravagante», racconterà poi. Ma la stagione del ribellismo di D’Alema dura poco, il tempo di abbonarsi brevemente al Manifesto e di partecipare (insieme alla fidanzata poi moglie) agli scontri di Capodanno davanti a La Bussola, contro i borghesi che arrivavano lì per il veglione di fine anno sfoggiando abiti da sera e gioielli. Solo una parentesi di contestazione, perché il giovane D’Alema è un giovane ambizioso che punta ai vertici del partito, e per arrivarci sa che bisogna dire sì. Per la verità, già come ribelle era un po’ sui generis. Le biografie ricordano che da universitario a Pisa non girava in eskimo, ma si faceva cucire gli abiti su misura dal fratello sarto di un deputato comunista di Pisa. La doppiezza faceva già parte di lui. Come dimostrerà subito dopo.

Indignato per i carri sovietici nella Primavera di Praga, qualche tempo dopo interverrà a Mosca come segretario della Fgci con queste parole: «Nella nostra battaglia per il socialismo sono forze determinanti i Paesi socialisti, in primo luogo l’Urss». Aveva imparato benissimo la lezione.

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