Dalle trincee il totalitarismo strisciò verso la politica

Da un convegno di "Magna Carta" lo stimolo a ripensare il terremoto intellettuale che portò verso una pace fragile

Dalle trincee il totalitarismo strisciò verso la politica
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La Prima Guerra mondiale non si è mai veramente conclusa, non solo per le cicatrici che ha lasciato, ma anche perché, a più di un secolo di distanza, continua a stimolare studi e riflessioni. Da ultimo, lo ha dimostrato il convegno La Grande Guerra della cultura, organizzato dalla Fondazione Magna Carta alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea, in concomitanza con la mostra Il Tempo del Futurismo. Storici come Orsina, Quagliariello, Benadusi, Bruni, Colarizi, Capozzi, Cioli, Gervasoni e Tarquini hanno discusso gli antefatti e le conseguenze del conflitto: la crisi dell'ordine liberale eurocentrico, l'ascesa dei nazionalismi e dei collettivismi, lo sbandamento del socialismo riformista, l'estetizzazione della violenza.

Cinque volumi tracciano un percorso di lettura essenziale. L'era delle tirannie (1938) di Halévy sottolinea la necessità di nuove categorie per analizzare i tempi: la nozione di dittatura non è più sufficiente, e quella di tirannia si configura come l'anticamera che avrebbe poi portato alla definizione di totalitarismo. In Stato, nazione ed economia (1919) di von Mises la guerra è il colpo di grazia a un mercato strangolato dallo statalismo. La Grande Trasformazione (1944) di Polanyi interpreta il conflitto come la prova del fallimento del laissez-faire e dell'ascesa dello Stato interventista. Infine, assai più prossimi a noi, due tra le prime ricostruzioni complessive del Novecento: Il secolo breve (1994) di Hobsbawm e Il passato di un'illusione (1995) di Furet. Seppure da punti prospettici opposti, vedono entrambi la guerra come il detonatore di un'epoca segnata da crisi, rivoluzioni, scontri ideologici.

Passando all'Italia, un punto d'attacco alla problematica, proposto anche nel convegno, è il contrasto tra due generazioni di antigiolittiani e la loro lettura del dopoguerra. Da una parte, chi cerca di aggiustare i pezzi di un orologio rotto, dall'altra chi vorrebbe rivoluzionarne il meccanismo. Per la storia dell'antigiolittismo, è fondamentale partire dai classici di Roberto Vivarelli (si veda tra gli altri, Il fallimento del liberalismo del 1981). In questa cornice, si possono selezionare alcuni esempi particolarmente significativi. Tra i numerosi antigiolittiani della prima generazione, spicca Salvemini, autore di Il ministro della mala vita (1919), il pamphlet che attacca frontalmente il supposto trasformismo giolittiano. E poi Einaudi e Albertini per i quali non si può prescindere dal loro epistolario (Lettere 1908 - 1925). Per un approfondimento del confronto generazionale con i giovani forgiatisi negli anni della guerra, si può consultare il volume di Quagliariello su Gaetano Salvemini (2007).

La seconda generazione di antigiolittiani abbandona il bisturi per l'accetta. La politica diventa pedagogia del conflitto: la guerra un modello di rigenerazione nazionale. Lo scrive Giuseppe Lombardo Radice in La nazione educatrice (1913). Questo approccio si concretizza nell'azione di Camillo Bellieni, nel quale Giovanni Sabbatucci ha scorto «la testa più lucida» del combattentismo. Tra i fondatori del Partito Sardo d'Azione, Bellieni trasforma l'eredità del conflitto in una lotta per i diritti dei reduci e per l'autonomismo, come documentato in Partito Sardo d'Azione e repubblica federale: scritti 1919-1925. Gramsci e Gobetti sono stati oggetto di studio da diverse angolazioni. Il loro rapporto è ben compendiato da un giudizio di Gobetti su Gramsci, che si rintraccia su La Rivoluzione Liberale del 22 aprile 1924: «Se Gramsci parlerà a Montecitorio, vedremo probabilmente i deputati fascisti raccolti e silenziosi a udire la sua voce sottile ed esile e, nello sforzo di ascoltare, parrà loro di provare un'emozione nuova di pensiero». Questa frase racchiude il complesso intreccio tra culture rivoluzionarie. A livello di politiche statuali, le inconfessabili assonanze sono state approfondite da Maria Teresa Giusti in Relazioni pericolose. Italia fascista e Russia comunista (2023). L'anno successivo, il redde rationem. I manifesti di Croce e Gentile segnano la fine di ogni ambiguità. Per Gentile, il fascismo è l'erede del Risorgimento. Per Croce, il suo tradimento. Molti antigiolittiani della prima generazione si schierano con Croce e, in tal modo, rivalutano almeno implicitamente il giolittismo. Nell'elenco, invece, scarseggiano i nomi di antigiolittiani di seconda generazione.

Alessandra Tarquini, che ha introdotto con Giovanni Scirocco il Manifesto degli intellettuali fascisti e antifascisti (2023), ha spiegato come Croce e Gentile rappresentino due interpretazioni inconciliabili del Risorgimento e della storia d'Italia. D'altra parte, con la Grande Guerra finisce l'illusione di un progresso lineare della nostra storia, che avesse preso le mosse dal Risorgimento.

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