La Dc si riunisce per dire addio a Gava

da Roma

Non avesse resistito la forte fibra all’ictus che lo colpì nel Novanta, i funerali di Antonio Gava sarebbero stati, come suol dirsi oggi, un «evento». Evento di Palazzo, ma che avrebbe attirato bosco e sottobosco politico, come mosche al miele. Tale la portata dell’uomo, tale il potere che incarnava.
Eppure una partecipazione formale e di convenienza avrebbe tradito ciò che Gava ha significato per decenni, per il Paese e per il partito di maggioranza relativa. Figlio di uno dei fondatori del Partito popolare sturziano, «don Antonio» è stata una di quelle figure che, più di qualsiasi trattato, spiega che cosa sia stata la Dc. È stato così giusto che la partecipazione ai suoi funerali, svoltisi ieri alla basilica di San Pietro e Paolo all’Eur, sia stata all’insegna soltanto del dolore dei familiari e di quello dei colleghi (amici e nemici) di una volta.
C’era tutta la Dc sopravvissuta alle temperie, al rito celebrato dal vescovo di Terni, monsignor Paglia, suo amico e confessore. A cominciare, ovvio, dal sempiterno Giulio Andreotti, capo di una corrente antagonista ma spesso alleata alla «Corrente del Golfo» che imperversò nella Balena bianca negli anni Ottanta e che inventò (pare proprio per intuizione di Gava) il celebre «Caf» (l’alleanza Craxi, Andreotti, Forlani). E poi Arnaldo Forlani, che del doroteismo gavianeo fu versione apparentemente meno aggressiva, e dunque più coriacea. Naturalmente l’ex giovane forlaniano Casini, l’ex segretario Bianco, l’ex sindaco Darida, e il ministro Rotondi (in rappresentanza del governo).
Era presente anche Vincenzo Scotti, esponente della generazione successiva a quella di Gava, eppure per lunghi anni sodale di quella del «padre nobile» di Castellammare di Stabia. E Paolo Cirino Pomicino, che con la sua vivacità s’incaricò di far largo all’andreottismo a Napoli, trovandosi spesso di fronte proprio allo strapotere di quello che veniva chiamato «Viceré» (altro che Bassolino). «Io e Antonio eravamo come cane e gatto, nella Dc napoletana», il commosso ricordo di Pomicino, che offre una traccia su ciò che fu. «Si litigava, ma litigando si raggiungevano accordi: la Dc era un partito a maglie larghe, chi aveva la tessera poteva tessere...».
Senza dubbio un signore delle tessere, Gava. Fervente cattolico fino all’ultimo, e fino all’ultimo sostenitore dell’unità dei cattolici in politica. Carattere segnato «dall’umiltà, mai incline a esibizioni o teatralità», un agire politico «all’insegna dell’austerità e della modestia». Ma anche tessitore di mille rapporti, don Antonio, che gli costarono sospetti atroci e lo strazio di Tangentopoli, fino alla carcerazione e agli ultimi tredici anni di sofferenze giudiziarie. Da cui però uscì con un’assoluzione piena, ieri diventata un po’ il leit motiv della cerimonia, e riscatto postumo della Balena bianca spazzata via dai giudici.

«Uno scrittore inglese - ha detto Forlani - scrisse che la verità cammina a passo normale, mentre le bugie volano e fanno in poco tempo il giro del mondo. Ma Antonio avrebbe accolto tutto questo con uno dei suoi sorrisi, non penso che si aspettasse riparazioni qui, su questo mondo...».

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