Il decreto fantasma e lo schiaffo a Speciale

Mercoledì ai componenti del Senato, impegnati a discutere e votare tutta una serie di documenti presentati dalla maggioranza e dalla opposizione sul «caso» Visco-Speciale, si è aggiunto un fantasma. E precisamente il fantasma del decreto presidenziale del 1° giugno che nomina comandante della Guardia di Finanza in sostituzione del generale Roberto Speciale il generale Cosimo D’Arrigo. Un fantasma che si è materializzato solo in zona Cesarini grazie alla salutare petulanza del vicepresidente di Palazzo Madama, il leghista Roberto Calderoli. Per ben due volte ha chiesto al presidente del Senato, Franco Marini, di rendere edotta l’assemblea del testo del chiacchierato decreto. E a ragion veduta. Perché bisogna einaudianamente conoscere per deliberare. Marini ha preso tempo e solo alla fine Calderoli ha potuto personalmente soddisfare la sua legittima curiosità.
A questo punto Calderoli deve aver strabuzzato gli occhi. Perché si tratta di un provvedimento che grida vendetta. Sono tanti, decisamente troppi, i misteri poco gaudiosi che il governo ha cercato di celare con una ostinazione degna di miglior causa. Non occorre chiamarsi Norberto Bobbio per sapere che una democrazia degna di questo nome è sempre una casa di vetro assolutamente trasparente. Mentre gli arcana imperii appartengono a un’epoca che ha fatto il suo tempo e che, ciò nondimeno, Romano Prodi cerca in tutti i modi di rinverdire. Come dimostra la dinamica degli eventi che si sono succeduti dal 1° giugno scorso. Quando il Consiglio dei ministri ha adottato lo schema di decreto e il presidente della Repubblica lo ha firmato a tamburo battente senza opporre la benché minima difficoltà.
La seduta del Consiglio dei ministri dura appena mezz’ora, dalle 17,30 alle 18. Al termine Romano Prodi lascia intendere che tutto va bene, madama la Marchesa. Dichiara: «Ho apprezzato il gesto compiuto dal viceministro dell’Economia Vincenzo Visco al quale esprimo tutta la mia stima e fiducia». Il presidente del Consiglio allude alla rinuncia di Visco alla delega relativa alla Guardia di Finanza, che a occhio e croce non deve essere stata precisamente spontanea ma «suggerita» se non imposta pro bono pacis. E poi Prodi aggiunge: «Totale fiducia va anche alla Guardia di Finanza e al suo nuovo comandante, chiamati a continuare il proprio lavoro con determinazione e correttezza». Una volta sottoscritto dal capo dello Stato nella stessa serata, il decreto, che al pari dei precedenti provvedimenti in materia non sarà pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, arriva alla Corte dei conti e lì rimane.
Il comunicato stampa in pari data riassume le determinazioni del Consiglio dei ministri. Riferisce la sospensione della delega sollecitata (?) da Visco e avocata dal ministro dell’Economia, e dà conto dell’avvicendamento al vertice della Guardia di Finanza. Sui contenuti del decreto, neppure una parola. Solo un comunicato del 5 giugno, cioè ben quattro giorni dopo, tenta di fare chiarezza. Mentre invece intorbida le acque. Dopo aver affermato che il decreto in parola si uniforma ai decreti presidenziali analoghi del 30 marzo 2001 e del 17 ottobre 2003, aggiunge che il provvedimento è sostenuto da «una puntuale motivazione». Ma il testo del decreto smentisce tale tesi. Perché la motivazione in realtà è inesistente. Difatti il decreto si limita ad affermare che sussistono le ragioni di massima urgenza per procedere all’avvicendamento al vertice della Guardia di Finanza sulla base delle considerazioni esposte nella proposta di avvicendamento formulata da Padoa-Schioppa di concerto con il ministro Parisi. Considerazioni, manco a dirlo, rigorosamente segretate.
A quanto pare, tale motivazione è risibile anche a giudizio della Corte dei conti. Perciò il Consiglio dei ministri prima e il Quirinale poi forse saranno condannati alla fatica di Sisifo. A rifare bene (si fa per dire) ciò che è stato fatto male e in malo modo. D’altra parte il ministro dell’Economia ha recitato due parti in commedia. Il 1° giugno, in Consiglio dei ministri, era al pari dei colleghi favorevolissimo allo zuccherino della nomina di Speciale alla Corte dei conti.

Dopo il gran rifiuto del novello Celestino V, mercoledì al Senato ha cambiato musica e si è armato di un nodoso bastone. Ma a uscire con le ossa rotte non è Speciale ma un governo vile, forte con i deboli e debole con i forti.
paoloarmaroli@tin.it

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