
Come Spatriati, il romanzo con cui nel 2022 ha vinto il premio Strega, anche l'ultima fatica letteraria di Mario Desiati, Malbianco (Einaudi, pagg. 400, euro 21), ha al centro un uomo che ha lasciato la città pugliese in cui è cresciuto per raggiungere prima Bologna, attratto dall'università e dal nome celebre di Umberto Eco, e poi Berlino, dove per alcuni anni vivrà da «nomade digitale». Stavolta, però, la direzione è centripeta e l'autore ne indaga il destino a partire dal nostos, il ritorno a casa. Non dell'eroe, dell'anti-eroe: Marco Petrovici si ritiene infatti «un fallito totale, un buono a nulla». Il fratello, un ufficiale, è ancora più severo: non accettandone la fluidità sessuale, lo considera un debosciato.
In realtà, procedendo nella lettura si intuisce che il «debosciato» - che adesso ha cinquant'anni e abita nella casa di famiglia in un bosco fra Taranto e Martina Franca, dove accudisce i genitori ottantenni - è tale perché è stato tenuto all'oscuro di una quantità impressionante di scheletri nell'armadio. Il rimosso sogghigna alle sue spalle e forse non lo uccide, ma in compenso gli procura ogni sorta di patologie: crisi di panico, svenimenti, capogiri. Disturbi che hanno esordito nel lontano 1987, il giorno in cui udì cantare il prozio Pepin, un musicista alcolizzato diventato muto durante la tragica ritirata dell'esercito italiano in Russia. Pepin, per l'anagrafe si chiamava Vladimiro e anche il cognome di famiglia non sembra di conio toscano. Viene, quel cognome, dalla bisnonna Addolorata: abbandonata dai genitori, i misteriosi Petrovici, fu adottata da una coppia di massari e in seguito si mantenne allevando una pregiatissima razza di asini, che vendeva al mercato. Addolorata ebbe tre figli da uomini diversi, senza sposarne nessuno.
Costellato da lampi di buona prosa e con più di un tratto autobiografico, tanto per confermare l'ipotesi che l'autofiction non è un genere letterario, ma un gradiente, visto che se ne riscontrano le tracce ovunque, Malbianco è il romanzo di un freudismo esploso che sorpassa il triangolo familiare di mamma, papà e progenie per coinvolgere un clan ramificato e con profonde appendici nella grande storia.
Ed è un romanzo pessimista: la speranza di veder tramontare l'Edipo del protagonista risalendo i rami dell'albero genealogico è frustrata già nell'esergo del volume, mutuato da Walter Benjamin e fin troppo chiaro nell'avvertire il lettore che la verità libera solo chi sa liberarsi anche nella menzogna; o almeno in quella verità congetturale, spuria e molto fantasiosa con la quale siamo quotidianamente costretti a fare i conti.
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