Il destino di Anna Karenina diventa una poesia «visiva»

Il corpo raggomitolato di Anna/Mascia Musy si abbarbica a quello del suo amante, Vrònskij/Paolo Mazzarelli, e nella penombra si lascia trasportare da una parte all’altra del palcoscenico «urlando» la sua vergogna e la sua colpa. Siamo all’undicesimo quadro del colossale allestimento di Anna Karénina che Eimuntas Nekrošius presenta in questi giorni all’Argentina con cast italiano. E siamo senza dubbio a una delle vette espressive più forti ed emozionanti dello spettacolo, laddove cioè si consuma la passione fedifraga della protagonista e, insieme, si prefigura con cupezza il drammatico epilogo/suicidio che ne seguirà. È una danza di corpi, di silenzi, di fatica, di dolori quella messa in atto qui per raccontare un amore illegittimo che, alla sua acme, soffoca di paura. Non servono parole. Forse perché a teatro non basterebbero. Ma anche perché quest’ultimo lavoro del grande regista lituano, al pari dei memorabili Tre sorelle, Amleto, Macbeth, Otello, Il giardino dei ciliegi, realizza una visione costruita sulla poesia delle immagini (tamburi che sono orologi e ruote di treno, pattini che sembrano distese di ghiaccio, specchi che alludono a teatri «dentro il teatro», sedie che comprendono interi mondi) e sull’energia vibrante dei corpi. Motivo per cui il linguaggio verbale, anche laddove altissimo e sublime, arriva una frazione dopo: introdotto da musica (soprattutto Sibelius), dettagli, gesti, onde emotive, vibrazioni che ne anticipano il senso. Stavolta però, a sostenere dialoghi e monologhi, non troviamo la drammaturgia di Shakespeare o Cechov, bensì un romanzo-universo che, pur se appositamente ridotto da Tauras Cizas, si mostra giocoforza ostico alla resa scenica. Nekrošius ne isola alcuni passaggi emblematici e quindi si trova costretto a procedere per episodi, per salti antologici (29 quadri in 5 ore di spettacolo); il che favorisce l’innesto di teatralità viva - «biologica» direbbe lui - sulla pagina letteraria ma nel contempo non facilita la fruizione. Attori lituani o russi avrebbero forse assecondato in modo più idoneo la visionarietà simbolica e insieme concreta del maestro. I nostri interpreti meritano comunque il giusto apprezzamento, fermo restando che la tradizione recitativa italiana, poco avvezza ad allenare le abilità fisiche, fa senza dubbio sentire il suo peso.

La Musy risulta, per esempio, troppo sentimentale; rigidi e impostati sia Mazzarelli sia Paolo Musio (Karénin); parodistica ma comunicativa la Dolly di Annalisa Amodio, mentre altalenante è la prova di Corinne Castelli/Kitty. Una bella sorpresa arriva invece da Paolo Pierobon (Lévin).

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