DIFETTI DI FABBRICA

È opinione comune che, con la settimana che inizia oggi, il governo Prodi entra nella zona rischio. È incerto se porre o no la fiducia sulle missioni militari all'estero. C'è l'opposizione di Di Pietro all'indulto. Il decreto Bersani, dopo la faticosa ricucitura con i tassisti, è esposto alla rivolta dei farmacisti. Al di fuori delle aule parlamentari, il clima non è migliore: i due grandi partiti che formano la maggioranza scaricano l'incertezza litigando sul futuro Partito democratico. Ben prima di ogni ragionevole previsione, l'Unione paga il duplice prezzo dell'esigua vittoria elettorale di aprile e dell'eterogeneità delle forze che la compongono.
Non c'è solo il peso dell'incontrollabile pressione massimalista sulle scelte di politica internazionale, della difficoltà di Bertinotti a tenere insieme le sue truppe, del peso che l'ideologia new-global ha assunto e che va oltre gli accordi di potere stretti fra i partiti. C'è la caduta del teorema secondo cui il centrosinistra sarebbe riuscito ad essere autosufficiente e, sull'altro versante, il centrodestra sarebbe andato in frantumi e non sarebbe riuscito a diventare opposizione. In altre parole, il teorema secondo cui il bipolarismo sarebbe franato su uno solo dei suoi versanti e che a partire da questa frana si sarebbe ricomposto il sistema politico. Qui c'è la prima secca su cui corre il rischio di incagliarsi la nave di Prodi, appena uscita dal porto. Il resto è solo la conseguenza dell'illimitata fiducia - per ripetere il giudizio del presidente del Senato Franco Marini - nella possibilità di ripetere all'infinito il miracolo di vincere per un voto, magari con una disinvolta campagna acquisti.
Cominciamo dalla difficoltà sul voto per il rifinanziamento della missione in Afghanistan. Ha ragione Angelo Panebianco (sul Corriere della sera di ieri) nel vedere il primato della politica estera sulla stabilità di un esecutivo e sulla sua durata. Ma, rileggendo la storia della sinistra italiana a cominciare dall'11 settembre, è impossibile non vedere che l'Unione ha un «difetto di fabbrica». Una coalizione che ambisce a governare una grande democrazia europea non può avere alcuni suoi pezzi per i quali l'Occidente è il nemico e che si troverebbero a loro agio magari nel Venezuela di Chavez. Non si tratta di una banale contraddizione politica. C'è una incompatibilità vera e propria. Non vederla e considerarla risolvibile nella cornice di un più generale patto di potere crea un'instabilità strutturale, destinata a durare oltre gli appuntamenti parlamentari come quello di questi giorni.
È lo stesso meccanismo che drammatizza l'opposizione di Di Pietro all'indulto. L'identità di una singola componente - in questo caso l'ideologia giustizialista, altro marchio di fabbrica della sinistra - fa aggio sulla solidarietà di coalizione e diventa la ragione prioritaria di sopravvivenza, nel presente e per un futuro che si presenta incerto.
Appunto, il fattore incertezza è l'improvviso scenario di fronte a cui Prodi si è trovato nei suoi tormentati «cento giorni». Non era mai successo, neanche nei momenti più difficili della Prima Repubblica, che i vincitori delle elezioni navigassero fin da subito in tanta precarietà. Ed è l'incertezza ad aprire le porte alla difesa delle singole identità politiche e alla frammentazione.

Con in più la scoperta di un limite: l'Unione che avrebbe dovuto aprire una nuova e miracolosa stagione di coesione sociale ha invece aperto pesanti conflitti, grazie al decreto Bersani (e in attesa di quelli su cui scommette il ministro Ferrero). Più che la settimana del rischio, questi giorni ci dicono che è il governo ad essere un rischio.

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