Il discutibile valore di Bentivegna stragista di via Rasella

Si è spento a 90 anni Rosario Bentivegna che collocò e fece esplodere, il 23 marzo 1944, la bomba di via Rasella: 33 «territoriali» del battaglione Bozen, formato da altoatesini, rimasero sul terreno. Per rappresaglia i tedeschi uccisero alle Fosse Ardeatine 335 civili, ebrei prelevati dal carcere o resistenti rastrellati all’ultimo momento. La lista dei giustiziandi fu compilata dal colonnello Herbert Kappler che, mentre allineava i nomi, accarezzava un cane malato. Per la strage delle Ardeatine è tuttora agli arresti domiciliari, a Roma, l’ex capitano delle SS Erich Priebke che era in Argentina e del quale l’Italia ha ottenuto l’estradizione.
Bentivegna era un combattente. Alla cui memoria, ieri, Giorgio Napolitano ha dedicato commosse frasi di cordoglio. Di fronte alla morte ci si inchina, però alcune espressioni usate dal presidente della Repubblica - «resta indiscutibile il valore ideale del suo coraggioso apporto alla liberazione del Paese dalla tirannia nazifascista» - ci sembrano, anche in un momento come questo, troppo enfatiche e celebrative, e nello stesso tempo troppo lontane dall’asprezza della polemica che attorno al gesto di Bentivegna è divampata. Era, ripeto, un uomo coraggiosissimo. Ma anche i fanatici spesso lo sono. Per noi quella bomba ebbe un fine politico, non fu di alcuna utilità militare e causò la risposta sanguinaria dei tedeschi. Si può giudicare quel gesto in vario modo, ma non ignorarne gli aspetti cupi e le conseguenze tragiche.
Bentivegna, studente di medicina, fu subito impegnato in un Gap, uno dei gruppi che procedevano, anche contro la volontà dei comandi partigiani, ad atti terroristici. Collaborò con lui, in via Rasella, Carla Capponi che sarebbe diventata sua moglie - divorziò da lei una quarantina d’anni or sono - ed altri resistenti. In molti libri, e con una serie di iniziative giudiziarie, Bentivegna si difese dalle accuse che anche da sinistra gli venivano mosse per aver attaccato i tedeschi nell’imminenza della liberazione di Roma - che avvenne il giugno successivo - allo scopo politico e propagandistico di accrescere l’odio verso l’occupante. Si affermò anche che i tedeschi avvano affisso per tutta Roma manifesti che intimavano agli attentatori di arrendersi e che Bentivegna, non facendolo, avesse causato l’eccidio delle Ardeatine.
Questa versione dei fatti è infondata. La ritorsione terribile fu ordinata a tambur battente e attuata in segreto. Tuttavia i gappisti - anche questo è certo - non potevano pensare che l’attacco al Bozen, progettato ed eseguito mentre si negoziava per proclamare Roma città aperta e rivolto contro un reparto non impegnato nei combattimenti, restasse senza conseguenze per gli sventurati, ebrei e non ebrei, che erano in mani naziste e fasciste. L’azione avrebbe potuto avere un significato se si fosse collegata a un’insurrezione cittadina: che la placida Città Eterna si guardò bene dal tentare. Un altro aspetto della strage, da Bentivegna sempre tenuto in sordina o subordinato a quelle che egli riteneva esigenze insurrezionali, è che per effetto della bomba persero la vita anche un bambino e sei civili italiani (il comando partigiano sostenne poi che i civili erano stati colpiti a morte nella sparatoria forsennata cui gli uomini del Bozen s’erano abbandonati dopo lo scoppio). Nel suo libro Achtung banditen Bentivegna ha rivendicato la legittimità anche morale dell’attentato: aggiungendo: «è veramente difficile dire DOPO se ci saremmo spontaneamente presentati ove ce ne fosse stata offerta PRIMA l’opportunità».
Coraggiosissimo certo, Rosario Bentivegna. Ma anche un estremista che pur nella Roma ormai presidiata dalle truppe alleate era pronto a sparare. Il 5 giugno del 1944 - l’ingresso delle truppe del generale americano Mark Clark era avvenuto il giorno prima - Bentivegna ebbe uno scontro a fuoco con il sottotenente Giorgio Barbarisi della Guardia di Finanza e con un militare che l’accompagnava. Secondo il racconto di Bentivegna i due erano intenti a strappare dalle bacheche d’un edificio che ospitava il Pci e le rotative dell’Unità gli striscioni con la scritta «Viva gli eserciti alleati, viva l’Italia libera». Sia il Barbarisi sia Bentivegna, al cui fianco era ancora una volta Carla Capponi, erano armati e spararono. Barbarisi fu fatto secco. Una Corte militare alleata condannò in primo grado Bentivegna a 18 mesi di carcere per eccesso colposo di legittima difesa, successivamente una Corte d’Appello lo prosciolse per legittima difesa, ordinandone la scarcerazione.


In una pagina del volume L’Italia della guerra civile - a quattro mani con Montanelli - avevo rievocato l’episodio accennando alla condanna di primo grado, ma ignorando per negligenza l’assoluzione piena. Bentivegna ci querelò e dovette essere risarcito. Un combattente.

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