Il divo Mehldau alla prova del piano solo

Il pianista e compositore americano più famoso e amato della sua generazione in concerto a Roma in versione solitaria.

Tocco elegante e sapiente. Stile personale e riconoscibile. Riferimenti classici e passione per il rock. Brad Mehldau, vera e propria star del piano jazz, l'artista che per molti più ha stupito nell'ultimo ventennio per talento e tecnica, torna in Italia, all'Auditorium Parco della Musica di Roma dove suonerà martedì prossimo in versione solitaria, soltanto in compagnia del suo pianoforte a coda. Un formato pensato per mettere l'artista a tu per tu con il pubblico, in una sorta di dialogo trasparente, lirico, diretto e intimo tra palco e platea.
Nato a Jacksonville, in Florida, nel 1970, Brad Mehldau è il pianista e compositore americano più famoso della sua generazione, il solo che, nonostante la giovane età anagrafica, possa essere paragonato ai «grandi vecchi» del jazz. Amato dal pubblico e dalla critica si presenta solitamente accompagnato dal suo trio, insieme a Larry Grenadier e Jeff Ballard. Il suo curriculum è nutrito ed eterogeneo. Mehldau, infatti, ha lavorato con un gran numero di musicisti jazz, ha licenziato una nutrita serie di album, come leader, co-leader e sideman ed è stato insignito di premi prestigiosi. Tra le sue tante collaborazioni ricordiamo la tournée di grande successo con la band del sassofonista Joshua Redman (durata due anni), le incisioni e i concerti con Pat Metheny, Charlie Haden e Lee Konitz, i dischi incisi come sideman con Michael Brecker, Wayne Shorter, John Scofield e Charles Lloyd. Ma al di là delle tante collaborazioni ed esplorazioni musicali, è il suo stile, forgiato nel romanticismo e nell'ascolto senza pregiudizi del pop, Radiohead in testa, a rappresentare la sua forza, ad accompagnarlo come un marchio di fabbrica, apprezzato tanto dai puristi quanto dai fan più digiuni di conoscenze musicali. Come ha scritto il Los Angeles Times, «con la sua passione per la musica popolare e la formazione classica, Mehldau è ammirato universalmente come uno dei più avventurosi pianisti che si sono imposti sulla scena del jazz in questi anni».
Il suo legame con l'Italia, poi, è strettissimo con il nostro Paese diventato una sorta di seconda patria di elezione. Agli albori della sua carriera, quando era completamente sconosciuto, venne scritturato per una settimana da un club di Perugia, a margine di Umbria Jazz. In città, attraverso il passaparola, si iniziò a parlare dei suoi concerti, della sua versione di Moon River, dell'impressionante indipendenza delle due mani, del suo senso ritmico, dei suoi fraseggi ripetuti in sequenza. E da lì inizio il suo personale decollo verso le vette della notorietà. Si può quindi affermare che la sua stella abbia iniziato a brillare proprio in Italia.
Per quanto riguarda la dimensione solistica, il suo approccio è, per sua stessa ammissione, simile a quello di un compositore davanti a un lavoro sinfonico. Quindi preferibilmente nella sua scaletta Mehldau inserisce un movimento più «intellettuale», uno più semplice e diretto, uno veloce, uno lento, uno in tre quarti. Un canovaccio soltanto mentale e basato sul desiderio di varietà. Un labile schema che lo porta a mutare in corsa i suoi intendimenti iniziali a seconda della direzione (e della durata) che prendono le sue improvvisazioni.

Insomma la bussola è sempre e soltanto una sola: la sorpresa e la meraviglia che scaturiscono da un'idea musicale spontanea, espressa in tempo reale e sconosciuta fino a un momento prima. In estrema sintesi il miracolo del jazz, ridotto all'essenza e portato alla sua massima espressione.

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