Alessandro Cecchi Paone è uno dei pochi volti televisivi che sia riuscito a conquistare la fiducia del grande pubblico nella maniera più ardua: attraverso programmi di divulgazione scientifico-culturale. Come lui solo altre due personaggi-cult del piccolo schermo (per giunta appartenenti allo stesso ceppo familiare), gli immarcescibili Angela: Piero «il grande», inventore di Quark, e l'altrettanto apprezzato figlio Alberto. Poi c'è una schiera di epigoni: dall'assennato geologo Mario Tozzi al mirabolante Roberto Giacobbo. Entrambi con un buon seguito di appassionati che non si perde una puntata dei loro «approfondimenti».
Ma ci fu un tempo (tra il 1997 e il 2006) in cui su Rete4 mieteva ascolti-record un programma memorabile come La macchina del tempo.
Sarebbe bello ritrovare la «macchina del tempo» e fare come Michael J. Fox nel film «Ritorno al futuro»...
«Ma La macchina del tempo (The Time Machine) è anche un romanzo di fantascienza di H. G. Wells, pubblicato per la prima volta nel 1895. Un'opera rivoluzionaria per quell'epoca».
Ma rivoluzionaria fu anche «La macchina del tempo» targata Alessandro Cecchi Paone.
«Una delle mie esperienze professionali che ricordo con maggiore soddisfazione».
Perché i programmi di divulgazione scientifica segnano il passo?
«Quelli di qualità hanno costi elevati e richiedono redazioni all'altezza dell'importanza dei temi trattati».
Ma non è anche una questione di bassa audience?
«Tutt'altro. I successi di Quark e della Macchina del tempo dimostrano che si può arrivare anche in prima serata ottenendo ottimi indici di ascolto e gradimento. Ancora oggi, quando vado a fare lezione nelle università, trovo ex ragazzini, oggi brillanti studenti, che ricordano con passione l'esperienza del mio programma».
L'emergenza Covid ha causato un crollo nell'autorevolezza della scienza medica. La colpa è tutta dei «presunti» esperti che si sono contraddetti nei talk show?
«Ai talk show ho partecipato, e litigato, anch'io. Ma è stata la Rai del servizio pubblico a mancare l'obiettivo primario».
Quale?
«Informare adeguatamente il pubblico sugli aspetti tecnici della pandemia. C'è stato un deficit di conoscenza, con i talk show che hanno monopolizzato, spesso banalizzandola, una tematica che meritava un approccio più organico e complesso. È come se si fosse commentata una partita di calcio senza conoscere le regole del gioco».
È mancato una sorta di «maestro Manzi» del Covid?
«Esattamente. Io a suo tempo proposi di far spiegare a Piero Angela, con una breve «striscia» tv quotidiana, gli argomenti più caldi legati al Coronavirus».
Lei ha fatto cenno alla Rai, ma neppure Mediaset e gli altri network hanno brillato in «lungimiranza scientifica» durante l'emergenza Covid.
«La responsabilità, salvo poche lodevoli eccezioni, è stata generale. Ma - ribadisco - alla Rai, in quanto servizio pubblico, toccava fare qualcosa in più».
Cosa pensa di quegli enti di ricerca, alcuni dei quali anche prestigiosi, che il primo aprile lanciano nel mare del web pesci d'aprile sotto forma di scoperte farlocche?
«Dovrebbe essere
severamente proibito. In tempi di fake news dilaganti, non abbiamo certo bisogno di scienziati irresponsabili le cui bufale scherzose rischiano di trasformarsi in verità eterne dai professionisti della manipolazione social».
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