«Dobbiamo tornare a una società povera»

La tesi provocatoria del sociologo francese Serge Latouche: «Per salvare il modello occidentale occorre riscoprire la sobrietà»

«Dobbiamo tornare a una società povera»

E se un po’ di austerità facesse bene? Secondo il sociologo dell’economia francese Serge Latouche - in Italia in questi giorni per presentare il primo numero di Decrescita (mensile dal titolo emblematico e provocatorio) e per inaugurare il corso in Ethic Management di AssoEtica - l’attuale situazione economica internazionale potrebbe quantomeno stimolare una riflessione. Una riflessione che, per Latouche, è in corso da una vita e che si fonda, in estrema sintesi, sull’assunto che non è la crescita illimitata ed esponenziale dei consumi a garantire la salute dell’economia, anche se l’attuale modello sembra dire il contrario. Inoltre secondo il sociologo francese liberismo e marxismo, che pure hanno prodotto società diverse, condividerebbero il medesimo immaginario, perché vedono il mondo e la sua intricata rete di relazioni, comprese quelle umane, in termini puramente economici. La globalizzazione di questo immaginario - e non, si badi bene, la globalizzazione in sé - costituisce uno dei bersagli della sua polemica.
Professor Latouche il termine «globalizzazione» è usato per dire tutto e il contrario di tutto. Ma che cos’è?
«A dire il vero la globalizzazione - in Francia si dice mondialisation - esiste da quando Cristoforo Colombo, nel 1492, sotto lo sguardo esterrefatto degli indigeni, mise piede nelle Americhe. Bisognerebbe parlare di “mercificazione”, di mondializzazione della mercificazione operata dal liberismo della finanza speculativa. Quanto all’importanza del luogo, di tutti i luoghi, mi limito a constatare un fatto evidente a tutti, e cioè che benché l’uomo, con la testa, possa viaggiare nel virtuale, in ogni altrove, i suoi piedi sono posati in un luogo preciso, qui ed ora. Un amico indiano una volta mi ha detto: “Il giorno in cui noi indiani non saremo più convinti che Benares sia il centro del mondo sarà la fine dell’India”. Naturalmente poi ognuno ha il proprio centro del mondo».
E la decrescita?
«Intanto occorre precisare che si tratta di una provocazione. Ci sono alcuni giornalisti imbecilli che mi chiedono di spiegare questo “concetto”, ma non si tratta di un concetto. È uno slogan, al limite. Prima di venire in Italia sono stato in Brasile e devo ammettere che suonava come un azzardo. Eppure le sale erano piene. Ho avuto qualche remora perché mi sono reso conto che per girare in aereo e raggiungere quel paese enorme ho consumato sette volte di più di ciò che un uomo dovrebbe ragionevolmente consumare in un anno. Vorrà dire che adesso farò sette anni coi piedi per terra. Ma torniamo alla domanda: “decrescita” è un termine diverso da “crescita negativa”. Non è l’opposto della crescita. Certo, non si tratta di un termine scientificamente appropriato. Restando sulla provocazione dovrei parlare di “crescita della gioia di vivere”».
Dietro la provocazione?
«Per orientarsi su una società di decrescita dovremmo fare tutti un passo indietro. Il fatto è che le categorie interpretative in mano all’attuale panorama politico di tutto il mondo occidentale - intendo dei partiti e delle sigle che fanno la politica - sono inadeguate ai problemi e alle domande che presenta la realtà. E non si tratta di una critica all’occidente tout court. Sarebbe banale. Basti dire che tanto a destra quanto a sinistra c’è una fede assoluta nel progresso il cui motto è “Avanti popolo”, ma è un progresso inteso come tecnologico-materiale, come accrescimento dei consumi, il che è una stortura».
Quindi crisi e decrescita sono due cose diverse?
«Certo. Qualcuno le confonde ed è logico che in una società fondata su presupposti consumistici chi parla di “crescere meno” viene preso per un teorico della crisi. In realtà in una società fondata sul lavoro la mancanza di lavoro più che una crisi sarebbe una catastrofe. Anche se occorre dire che ci sono state società impostate sull’otium, il riposo intelligente dedito agli otia humanitatis, invece che sul lavoro. Naturalmente otium e negotium, azione e contemplazione, tempo libero e lavoro, devono coesistere, ma nessuna delle due dimensioni può prendersi tutto lo spazio sopprimendo l’altra. In una società di decrescita non c’è disoccupazione perché possono lavorare tutti, purché si lavori meno. Basta intervenire sugli orari di lavoro. Si potrebbe avere più tempo libero. Abbiamo bisogno di riscoprire il piacere della vita, di stare con gli altri e nella natura, di riscoprire stili di vita che hanno sempre avuto dignità di esistenza in tutte le società e che la nostra ha cominciato a rinnegare dal Cinque-Seicento».
Pauperismo e dirigismo non rischiano di essere le conseguenze obbligate di questo discorso?
«Intanto ritengo che la libera competizione non solo sia positiva e salutare, ma persino necessaria. Insieme a cooperazione e solidarietà però, perché la ricchezza è tale anche quando è ricchezza dell’anima. Quanto alla povertà bisogna precisare che non è la miseria. Si dovrebbe più propriamente parlare di sobrietà. Il problema è che abbiamo trasformato la povertà in miseria. La miseria è priva di dignità. La povertà e la sobrietà no. Un certo modello ha portato la miseria là dove prima semplicemente c’era tutto per vivere, tranne il superfluo. Con le conseguenze migratorie che abbiamo sotto gli occhi. Ora questo rischia di succedere a 400 milioni di cinesi. E allora sì che sarà una catastrofe. Il ministro dell’ambiente cinese ne è consapevole, e non è poco, ma troppi ancora sottovalutano il problema».
In concreto?
«Rispondo con le “6 R” della società della Decrescita: rivalutare, ristrutturare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare».
Perché non lo chiama «sviluppo sostenibile»?
«Perché le parole non sono innocenti. La parola “sviluppo” viene dalla biologia, da Darwin, che con la teoria positivista dell’evoluzionismo nega l’individuo in nome della specie. Lo sviluppo allora diventa infinito. Ma un organismo, in verità, nasce, cresce, e sottolineo “cresce”, matura e muore. Persino la specie, a ben guardare. L’economia ha mediato dall’ambito biologico il termine “sviluppo” perdendo il senso del limite. Ma uno sviluppo infinito è impossibile. Ora, non avendo incorporato il senso del limite, gli economisti hanno coniato l’ossimoro, l’antinomia impossibile, di “sviluppo sostenibile”.

Per gli economisti lo sviluppo è un mito nel quale pensano di poter mettere tutto e il contrario di tutto. Ma lo sviluppo di tutto e di tutti per sempre è impossibile. Insomma lo sviluppo sostenibile è solo una strategia comunicativa».
E Latouche che fa per cambiare le cose?
«La mia risposta è la dissidenza».

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