Il documentario sull’affido non entra nei cinema (per ora)

Il bellissimo lavoro di Emmanuel Exitu racconta le confidenze delle famiglie che accolgono i "figli temporanei". Si può vedere sul web

Il documentario sull’affido non entra nei cinema (per ora)

Roma - «Lo so che tu sarai la mia mamma solo per un po’. Ma ti prego: dimmi che sarà per sempre». Fra gli innumerevoli prodotti televisivi presentati dal RomaFictionFest, concluso sabato, ce n'è stato uno che, passato quasi inosservato al grande pubblico, ha rappresentato invece una delle sorprese più inattese, più emozionanti dell'intero programma. Parliamo di La mia casa è la tua: toccante documentario firmato da Emmanuel Exitu su uno degli atti di «eroismo del quotidiano» che più colpisce, per la gratuità e il valore di cui dà prova. L'affido.

«Dopo aver ricevuto da Spike Lee, a Cannes, un premio per un documentario che indagava sull’Aids - racconta Exitu (bolognese, nome d'arte tratto dal titolo di un’opera di Giovanni Testori) - sono stato contattato dall'Associazione “Famiglie per l’accoglienza”: 3500 nuclei che, in tutta Italia, hanno spalancato casa e cuore a ragazzi in difficoltà, bisognosi di una famiglia a tempo, fino a quando, cioè, la loro stessa famiglia non si assesti, ma soprattutto di un amore senza tempo». C’era qualcosa, oltre il comprovato talento, che garantiva l’efficacia dello sguardo di Exitu: la sua totale estraneità all'argomento. «Anch’io credevo, come credono tutti, che per prendere un ragazzo in affido si debba essere dei supermen. La mia casa è la tua (per cui l’autore è in trattative con la Rai e con la Fox; ma che è gia visibile sul sito famiglieperlaccoglienza.it) cerca invece di dimostrare esattamente il contrario». Venti famiglie visitate; sei selezionate, in base alla capacità comunicativa; sei giorni appena di ripresa, 24 ore a famiglia, con le telecamere fin dentro al «tran-tran» quotidiano. E il risultato è una «full immersion», densa e stimolante, nel cuore dell'umanità nascosta di tanta gente comune. «L’approccio non è sociologico, né psicologico - spiega Exitu - Non volevo fare un’inchiesta. Ma solo raccogliere la testimonianza di fatti concreti. Perché in questo caso più che mai, al di là delle parole, quel che conta sono i fatti». Ed è proprio l'assoluta normalità di queste famiglie - delle quali lo spettatore diventa quasi fisicamente ospite, sedendo in cucina o in salotto, ad ascoltare confidenze che, di solito, si fanno solo agli amici più intimi - ad offrire la dimostrazione di un atto alla portata di tutti. Con un montaggio «sporco», e cioè diretto e concreto, con un linguaggio scabro da reportage, un tono mai celebrativo né predicatorio, e la disarmante sincerità di testimonianze commoventi, senza mai essere ricattatorie, viene infine a galla l’assoluta «banalità del bene». «Il documentario cerca di dimostrare che per l'affido non è necessario essere santi. Basta avere un cuore che funziona. E poi tenta di rispondere, con le parole di chi le vive sulla pelle, alle domande che l'affido fatalmente pone. Perché un uomo e una donna dovrebbero decidere di accogliere il figlio di altri? Perché non possono tenerlo per sempre con sé, ma limitarsi ad amarlo semplicemente com’è, e per il tempo che ne avrà bisogno? Perché dovrebbero andarsi a cercare proprio un ragazzo in difficoltà? E l’amore che si dà e che si riceve, e anch’esso a termine o è invece per sempre?». Proprio questo è lo snodo psicologico più interessante. «Dalle parole dei protagonisti scopriamo infatti che molti genitori affidatari scoprono d’essere stati veramente genitori solo nel momento del distacco. Quando cioè il figlio deve tornare nella sua vera famiglia.

Le parole di una bambino che, una volta tornato nella casa d'origine, ha inviato alla mamma temporanea sono, a questo proposito, illuminanti. «Lo so che sei stata la mia mamma solo per un po’ - scrive - Ma ti prego: dimmi che sarà per sempre».

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