Dominio del pregiudizio

C’è una buona notizia nell'appello promosso da due importanti costituzionalisti come Augusto Barbera e Stefano Ceccanti, a cui hanno aderito duecento personalità, appartenenti quasi tutte allo schieramento politico-culturale del centrosinistra, in vista del referendum del 25 giugno. Consiste nell'aperta polemica con il conservatorismo - non solo istituzionale - del Comitato per il no, guidato dall'ex presidente Scalfaro, che ha fatto della difesa della Carta del 1948, peraltro già più volte modificata, un vero e proprio dogma ideologico. C'è però una cattiva notizia, più pesante della buona: anche i riformisti dell'area dell'Unione, pur dichiarandosi aperti all'innovazione, non riescono a compiere delle scelte conseguenti. Sanno che in Italia c'è un immobilismo dominante, anche loro hanno pagato un alto prezzo al fallimento dei ventennali tentativi di cambiamento, consumati nelle varie commissioni bicamerali. Eppure invitano a bocciare una riforma che c'è nel nome di una che considerano «migliore», ma che non c'è, non esiste, è una scommessa al buio.
Votare no per esprimere un sì non è un gioco di parole. È, nel nostro bipolarismo, un autentico paradosso, un atto di autolesionismo. Si riconosce che sono «validi alcuni principi ispiratori delle modifiche introdotte dal Polo». Li ha elencati Claudia Mancina proprio sul Riformista, il quotidiano che ha sostenuto l'iniziativa di Barbera e Ceccanti, indicando la legittimazione diretta del premier, il superamento del bicameralismo perfetto, la riduzione del numero dei parlamentari, il rafforzamento del sistema delle autonomie. Si avverte il pericolo della demonizzazione delle riforme, come ha scritto Nicola Mancino. Si ripete che «bisognerà comunque puntare a un cambiamento della Costituzione». Ma, alla fine, prevale l'argomento della cattiva, anzi della «sgangherata» soluzione elaborata dai «saggi di Lorenzago» e si invoca - sono sempre parole di Mancina - «la ricerca di larghi consensi tra maggioranza e opposizione, come indicato dal presidente Napolitano».
Non voglio pensare al dominio del pregiudizio, grazie al quale tutto ciò che ha il marchio della Casa delle libertà se per i massimalisti della sinistra è un arbitrio o un esercizio di anti-democrazia, per i riformisti sopravvissuti nell'Unione è quanto meno un errore o un pasticcio, un qualcosa in ogni modo da correggere e riscrivere, anche se i principi sono giusti. Quel pregiudizio comunque esiste ed è il muro su cui si infrange la prospettiva di un bipolarismo normale. Ma nel caso dell'appello di Barbera e Ceccanti c'è soprattutto un errore di fiducia, c'è la convinzione che il prevalere del no, il 25 giugno, equivale a riaprire il discorso sull'«adeguamento della Costituzione», che azzerare il lavoro fatto significa automaticamente aprire un altro cantiere. Questo è l'abbaglio. Nel caso di una bocciatura del nuovo testo, si può essere certi dell'ondata di retorica conservatrice, dell'affermazione del pensiero unico dell'immobilismo, del richiamo gerontocratico alle verità intangibili dei «padri fondatori». I sostenitori del no nel nome di una riforma migliore davvero non immaginano la lezione che verrà loro impartita da Scalfaro?
Si può dare qualunque giudizio sulle modifiche costituzionali che saranno sottoposte a referendum fra un mese, si possono avere dubbi sulla traduzione concreta, nel testo, di principi che sono condivisi anche da una parte della cultura politica dell'Unione.

Ma il no, se prevarrà, sarà letto proprio come la bocciatura di questi principi. Sarà il blocco di ogni possibile tentativo di cambiamento istituzionale. Mentre il riformismo si rafforza e si nutre con le riforme attuate, non con quelle sognate.

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