Poteva essere la moglie di Steve Jobs. Un anno di fidanzamento serio (portò il primo Mac in visione a casa sua) quando lei era al College e lui aveva già 28 anni, fama e denaro. Tutte cose di cui Jennifer Egan - Chicago, 1962, un Pulitzer per "Il tempo è un bastardo" (2011) e un romanzo appena uscito, "Manhattan Beach" (Mondadori, pagg. 510, euro 22; trad. Giovanna Granato) rideva. «Invitàti alla Casa Bianca a parlare di potere e diplomazia? Il bello di essere scrittrice è che puoi renderti invisibile». Finì quando Jobs le chiese di sposarlo.
Voleva altro, Jennifer Egan: vincere il dolore il ricordo del padre alcolista, le crisi di panico, il suicidio del fratello Graham, affetto da schizofrenia - scrivendo romanzi. Manhattan Beach però è diverso da tutti i precedenti, in cui si concentrava su un avanguardismo ispirato al digitale e faceva capitoli in powerpoint o ispirati ai social network. «La verosimiglianza è noiosa», usava dire prima di scrivere questo tomo. Pieno di dettagli - prima versione 1400 pagine, un anno e mezzo di lavoro e ricerche - ambientato nella seconda guerra mondiale. Protagonista una donna, Anna Kerrigan, che diventerà la prima donna palombaro in una società newyorchese dominata da banchieri in ascesa e romantici gangster, tra i quali Anna incontrerà l'amore. Più verosimile di così. In questi giorni, la Egan è in Italia per presentare Manhattan Beach: oggi a Roma a LibriCome, domani a Venezia a Cà Foscari e martedì a Torino al Circolo dei Lettori.
Come nasce Manhattan Beach?
«Dalla foto di un palombaro. Dal waterfront di New York dove c'era il cantiere più grande di tutta la guerra. Dagli uomini rana che andavano nel cantiere a riparare le navi. E poi l'acqua, il mare: New York è casa mia, ma non ho mai pensato, per molto tempo, a questa come a una città di mare. Le immagini di acqua mi hanno attratta durante tutta la preparazione del romanzo: acqua dappertutto, come se a New York tutti gli oggetti saltassero fuori da lì, dal commercio sull'acqua».
E l'acqua come metafora. Ma di che cosa?
«Di tutto. Della profondità, ovvio. Del potere. Della storia. Anche se il mio interesse per la storia del mio Paese è nato molto prima di questo libro, l'11 settembre 2001. Ero a Manhattan e ho sentito lo schianto dell'aereo contro le torri, mio marito era sul ponte, nella metro, e l'aereo lo ha visto. Ma quello che ci ha scioccati è come da un momento all'altro la città si sia trasformata in una zona di guerra. Noi americani non abbiamo memoria collettiva né immagini di guerra dentro al Paese. Mi interessava raccontare come, dopo la guerra, gli Stati Uniti sono diventati una potenza mondiale. E quelle foto di acqua, il palombaro, sono metafora anche di questo».
Come ha costruito Anna Kerrigan?
«Non decido mai come saranno i personaggi prima di scrivere: mi lascio guidare dai sentimenti. Capisco le loro motivazioni solo a posteriori. Anna Kerrigan mente spesso: ha imparato a farlo dal padre. Ma dopo averla conosciuta meglio ho capito che lo fa per conquistarsi libertà e indipendenza. E per nascondere una vita sessuale che sarebbe condannabile. Mente per poter vivere».
Anna è sottoposta a una estrema pressione. Fisica, perché potrebbe finire «schiacciata» dall'acqua. Psicologica, perché le donne dovevano lottare per affermarsi. Ma ce la fa alla fine.
«Volevo assolutamente, in modo programmatico, scrivere un libro sulla forza delle donne. Gli uomini nel romanzo mi sono serviti solo per parlare di come le donne forti sono viste in modo negativo dalla società».
Profetico, visto il momento che le donne stanno attraversando, specie negli Stati Uniti. Il riflettore è puntato in ogni istante sul #MeToo. Lei che posizione ha?
«Partiamo dal libro: la guerra ha dato grandi opportunità alle donne. L'ho sempre sentito dire. E poi ho scoperto che proprio vero. Mi sono documentata, ho letto romanzi, lettere e interviste dell'epoca e poi ho ascoltato le donne di allora: mi ricordo la storia di una saldatrice. Venne assunta dal cantiere, fece una gran carriera, era molto considerata. Ma alla fine della guerra tutte le donne vennero licenziate e lei si ritrovò a fare l'operaia. Chiese di tornare a fare la saldatrice: le risero dietro tutti. Negli anni '50 le donne americane sono tornate nelle loro belle cucine a fare biscotti».
E oggi sono di nuovo arrabbiate.
«Ci sono somiglianze con quel periodo, sì: durante la guerra le donne non erano accettate sulle navi perché si aveva paura che gli uomini potessero attaccarle. Oggi vengono attaccate negli uffici chiusi a chiave. Per fortuna io lavoro da sola. Tuttavia, non so davvero che posizione prendere, non ho un'idea chiara sul #MeToo: la situazione è estremamente volatile. Cambia ogni giorno».
A che cosa serve la fiction?
«A spiazzare. La scrittura è questo: vedere le cose improvvisamente, anche se sono sempre state lì. Ho un sogno ricorrente: in tutti i luoghi dove mi trovo, spuntano stanze extra. Aprendo una porta, si arriva in un giardino, che si apre su un'altra porta e così via.
Mi sono convinta che questa sia la mia metafora dello scrivere, che approccio in modo istintivo. Non sono mai riuscita a trovare modo migliore che farmi attrarre dalle cose: se un'idea mi affascina, devo sentire una vampata di calore».
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