Quella dellUnione in Molise è una doppia sconfitta, perché a perdere voti nellalleanza di centrosinistra sono state soprattutto Margherita e Quercia, sia rispetto alle precedenti regionali sia rispetto al voto dello scorso aprile. E questo non è un problema circoscritto a Isernia e a Campobasso, come minimizza Romano Prodi. È piuttosto la conferma, sia pure in un test limitato, di quel che indicano sul piano nazionale tutti i sondaggi. C'è l'uscita di un elettorato moderato - possiamo definirlo ulivismo mite? - che vede smentite le sue attese e non accetta il massimalismo sociale del governo. Per di più, questa uscita non si è verificata nel Nord dei produttori di ricchezza, ma in una regione meridionale che in teoria, molto in teoria, avrebbe dovuto essere più convinta dei benefici redistributivi della Finanziaria e dell'ideologia controriformista enunciata quotidianamente dai ministri.
Se la maggioranza dei molisani ha dunque capito bene, hanno capito ancora meglio quegli elettori che non hanno ripetuto l'errore commesso sei mesi fa, che hanno ritirato la loro fiducia ai «riformisti» Rutelli e a Fassino e che hanno direttamente scommesso sul centrodestra. Il segnale è nitido. Non si può investire sul «vuoto politico», su un'impresa che è stata lungamente annunciata, che è stata esibita con il progetto del Partito democratico, ma che non esiste. E Margherita e Quercia oggi sono il simbolo di questo vuoto, dell'assenza di una strategia in grado di condizionare l'asse Prodi-Bertinotti. Colpisce però il fatto che ci sia tanta difficoltà a capire che si è aperta una falla attraverso la quale si è messo in movimento un bel pezzo di opinione pubblica. Ad essere più espliciti, colpisce quella che appare come una vera e propria rassegnazione, se non una resa.
Non lo noto per nostalgia del passato, ma una volta le leadership politiche erano in grado di fare i conti con le sconfitte e di leggerne il senso. Oggi, soprattutto nell'Unione, questa capacità si è persa. È vero che non c'è da stupirsi, se l'impercettibile vantaggio elettorale dello scorso aprile è stato vissuto come il viatico a cinque anni di stabilità e di governo e non come l'inizio di un percorso precario. Ma Rutelli e Fassino si comportano come se non si fossero accorti che tutto ciò che è accaduto in sei mesi è soprattutto il loro insuccesso. Prodi è il padrone assoluto della maggioranza, la Finanziaria è un colpo anche a ceti importanti della loro base sociale, la pressione massimalista, con la manifestazione di piazza a Roma e con la conseguente denuncia della legge Biagi, non incontra un solo argine. I due maggiori partiti dell'alleanza forse sono abili nella spartizione del potere, ma appaiono enti completamente inutili.
L'inesistenza del «riformismo» politico è ormai da settimane oggetto di riflessioni e polemiche anche nel mondo più vicino all'Unione. Si è trattato soprattutto di discussioni accademiche, senza alcun effetto pratico. Ora è successo che un piccolo risultato elettorale ha sottolineato una grande verità. Questa: la crisi di fiducia, verificata attraverso la conta reale dei consensi e non più solo con i sondaggi, non investe solo il governo ma colpisce in primo luogo quelle forze che avrebbero dovuto garantire senso della misura e responsabilità verso l'intero arco di interessi rappresentati nella società.
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