DORANDO PIETRI A un passo dalla gloria

Ex garzone di una pasticceria nel 1908 partecipò alle Olimpiadi di Londra. In una biografia-romanzo la sua vita rocambolesca

Il romanzo di Dorando Pietri (che gli italiani, chissà perché, sono abituati a ricordare come Petri) cominciò quel giorno che, garzone della pasticceria Melli, venne mandato dal titolare a imbucare una lettera alle poste della stazione di Carpi, affinché la mattina dopo arrivasse a destinazione a Reggio Emilia. Purtroppo era di sabato, festivo per le Regie Poste che quindi non prelevavano e non recapitavano, gli disse il capostazione: se ne sarebbe riparlato il lunedì. Il padrone era però stato categorico riguardo all’urgenza e Dorando era un ragazzo obbediente. «Quanto c’è da qui a Reggio?» chiese al ferroviere. «Venticinque chilometri, più o meno» fu la risposta. «Bene, allora la porto a mano». E cominciò a correre...
Dorando Pietri è quello della maratona, lo è stato per almeno la prima metà del Novecento e anche se nella seconda l’eco si è affievolita, non è mai completamente scomparsa. Bene ha fatto Giuseppe Pederiali, che è un romanziere con la sensibilità del cantastorie, a scrivere su di lui questo Il sogno del maratoneta (Garzanti, 271 pagine, 16,60 euro), una biografia ma anche un racconto di fantasia, verità e leggenda a braccetto, lo scrittore che si fa storico e psicologo, ricrea, immagina. Il libro esce nel centenario dell’impresa che fu di Dorando, quella delle Olimpiadi di Londra del 1908, quando ventitreenne passò alla storia come «colui che ha vinto ma ha perso la vittoria».
Diciamo la verità. Nessun pubblicitario sarebbe riuscito a combinare le cose meglio di come la realtà nuda e cruda si divertì ad assemblarle. C’era questo corridore sotto l’uno e sessanta («il nano volante» lo chiamavano), con una malformazione congenita al cuore, sgraziato nei movimenti eppure a suo modo bello. C’era un’Italia da poco nazione e che per bocca di Giolitti aveva rifiutato di ospitare le Olimpiadi perché troppo costose per un popolo che, occupato com’era a cercare di non essere povero, non poteva permettersi di essere anche sportivo. C’era l’Inghilterra imperiale che invece si era assunta l’onore e l’onere di fare da padrona di casa e in quell’inizio secolo in cui il barone de Coubertin donava alla modernità l’antico sogno dello sport come affratellamento, la maratona era la gara per eccellenza, il simbolo stesso di ogni fama e di ogni vittoria. Dorando Pietri la vinse come spesso, in quell’atletica ancora agli albori, si vincevano le gare: da stravolto, lo sguardo annebbiato, il cuore in gola. Nel White City Stadium di Londra entrò da solo e per primo, imboccò la pista nel senso sbagliato, tornò indietro, cominciò a barcollare, cadde, fu aiutato a rimettersi in piedi, gli ultimi cento metri furono un calvario.
Il resto è noto, il resto è storia. Squalificato per il richiamo della squadra americana, arrivata seconda con John Hayes, Dorando si vide togliere il titolo, ma non la gloria. Come scrisse Sir Arthur Conan Doyle : «Nessun romano antico seppe cingere la corona della vittoria sulla sua fronte meglio di quanto non abbia fatto lui».
Il seguito fu, anche se per poco, all’altezza di quella leggenda. Perché Dorando era veramente nato per correre, ce l’aveva nel sangue, era l’unica cosa che lo rendesse felice, ma aveva un fisico che ogni volta la corsa corrodeva e chilometro dopo chilometro conduceva verso la morte. Disputò in tutto 128 gare, fra dilettante e professionista, arrivò primo 104 volte, stabilì il record mondiale di velocità nella maratona con due ore, 38 minuti, 48 secondi, fu per molti versi il primo a inaugurare l’epoca delle tournée, delle sfide e dei meeting a pagamento. Durò tutto una manciata di anni e in fondo solo la Grande guerra impedì a Pietri di ammazzarsi da sé: al professor Augusto Murri che lo visitò nel 1912 il cuore di Dorando ricordò l’immagine di un pugno, piccolo e deforme.
Nel dopoguerra Dorando fece altro. Mise su un Grand Hôtel a Carpi ma in seguito dovette chiuderlo, poi una società di autonoleggio, lasciò l’Emilia, si trasferì in Liguria. Fu un fascista tiepido, aureolato di una gloria sportiva che al Regime cominciava ad andare stretta. Pietri era l’Italia povera, l’Italia emigrante e un po’ vergognosa, dove lo sport era un lusso per fisici alto-borghesi, e Mussolini ormai voleva un’Italia ginnica, un popolo in tuta oltreché in camicia nera.
Morì nel 1942, d’infarto naturalmente. Nel dopoguerra i giornali inglesi lo resuscitarono.

Viveva a Birmingham, scrissero, aveva un bar, avrebbe fatto da starter della maratona per le Olimpiadi di Londra del 1948. Era solo un impostore, si chiamava Pietro Palleschi, era toscano. Fosse stato vivo, Dorando ci si sarebbe fatto sopra una risata e poi di corsa l’avrebbe sfidato.

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