Drogò il suo capo e finse uno stupro: condannata a 5 anni

MilanoUna montagna di menzogne. Eccessive, pesanti, fabbricate su misura con precisione e cinismo, ma prive anche di un minimo fondamento. Su questo fragilissimo architrave, a dire il vero apparso traballante sin dall’inizio, poggiava la storia di abusi che Silvia Vastola, una 46enne segretaria milanese, si ostina a raccontare da oltre un anno e mezzo ad avvocati, pubblici ministeri, parenti e, probabilmente, anche a se stessa.
Ieri i giudici del tribunale di Milano l’hanno definitivamente sbugiardata. La donna è stata condannata infatti a cinque anni di carcere con l’accusa di calunnia, appropriazione indebita, truffa, stato d’incapacità procurato mediante violenza, lesioni volontarie e danneggiamento. Accuse gravissime per una pena, in fondo, lieve se si pensa che ha tentato di rovinare per sempre la vita di un uomo, il suo ex capo, accusandolo di averla stuprata. E invece era stata lei a drogarlo, a inscenare una violenza mai avvenuta per nascondere di essersi appropriata di 20mila euro dai conti della società.
Ma veniamo alla vicenda. Silvia Vastola, nel settembre 2008, viene assunta dal manager di una grossa società. L’uomo, 64 anni e una stimata carriera alle spalle, fa di Silvia la sua segretaria nonché assistente personale.
Sembra che tutto vada bene, che ogni cosa proceda regolarmente. La situazione precipita invece all’improvviso cinque mesi più tardi, nel febbraio 2009. In base a quanto ricostruito dal pubblico ministero Marco Ghezzi, la donna, infatti, ordisce un sordido complotto ai danni del manager perché ha sottratto alla società circa 20mila euro e sa che l’uomo a breve non potrà che scoprirla e denunciarla.
Così un pomeriggio Silvia si fa trovare nell’ufficio del capo, sdraiata sul pavimento, con la camicia e il reggiseno tagliati. Accanto un paio di forbici sporche di sangue. «Il mio capo, è stato lui, mi ha violentata» racconta la donna, che appare molto provata, ai poliziotti intervenuti sul posto. Sempre loro, gli investigatori, qualche minuto dopo trovano il 64enne nei box dello stabile mentre, in stato confusionale, sta cercando di aprire la propria macchina con il telefono cellulare.
La vicenda non è chiara. E mentre il manager viene ricoverato in ospedale, la segretaria viene esaminata dai medici del servizio violenze sessuali della clinica ginecologica Mangiagalli. A scagionare definitivamente il povero 64enne dall’accusa infamante di essere uno stupratore, però, non sono i referti ospedalieri della donna che, peraltro stabiliscono immediatamente che tutto il sangue trovato su di lei (ma anche, come si scoprirà, sulle forbici) è di origine mestruale, bensì gli esami tossicologici sul manager.

Nel sangue dell’uomo - che intanto ha scoperto gli ammanchi nella società e denunciato la segretaria - c’è un ansiolitico: secondo i giudici Silvia, approfittando delle condizioni di salute del suo capo - sofferente di vuoti di memoria e assuntore di psicofarmaci - gli aveva offerto un caffé «corretto» con benzodiazepine. Per poi inscenare lo stupro.

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