Per quanto possa sembrare paradossale, grottesco, al limite dell'inverosimile, l'episodio verificatosi a Reggello racchiude in sé, come in una sintesi essenziale, tutti gli elementi della incompatibilità della cultura occidentale, la nostra, con quella musulmana. Perché cito prima la nostra e non, come si è soliti fare, quella musulmana? Perché sono i nostri politici che, nella loro ottusa ignoranza e superbia, si sono ostinati ad affermare che gli immigrati si «integrano»; che basta essere nati sul territorio italiano per essere «cittadini italiani»; soprattutto hanno imposto una classificazione delle religioni totalmente errata, ossia quella delle religioni come «religioni», mettendole tutte alla pari, incuranti di ciò che storici, etnologi, antropologi, hanno sempre affermato, ossia che ogni religione è una «cultura» e che la distinzione fra religione e cultura è un'acquisizione che riguarda soltanto noi. Questo significa ovviamente che essere musulmani è vivere una cultura in ogni aspetto della vita e non soltanto nel momento della preghiera e che, di conseguenza, la nostra scuola è quasi del tutto in contrasto con i significati, i costumi, le regole, i precetti musulmani. Se analizziamo i particolari della vicenda di Reggello, ce ne accorgiamo subito. Figlia di un imam, ossia di un uomo particolarmente attento ai precetti, l'alunna cui è stato deciso di «tappare le orecchie» è prima di tutto di sesso femminile. È al sesso femminile che è vietato l'ascolto della musica, aggravato poi dal tipo di musica, quella degli infedeli. Se fosse stato un «maschio», molto probabilmente tutto questo non sarebbe avvenuto, e in ogni caso è certo che nessuno avrebbe proposto di «tappargli le orecchie», idea di tabuizzazione fisica «adatta» a una donna. Ci rendiamo conto di quello che stiamo dicendo? A quale stato di regressione ci siamo ridotti? Un giudice di pace italiano che non ragiona più, che perde la testa di fronte a comportamenti che non è in grado di valutare e che abdica alla civiltà giuridica cui è chiamato per annullarsi di fronte a ciò che non è in grado di capire. Non facciamo orrore a noi stessi? Guardiamoci bene in faccia: non sono in gioco i musulmani, siamo in gioco noi. Se poi passiamo all'oggetto della disputa, dobbiamo sentirci davvero ridotti al nulla. Non abbiamo sempre affermato che la musica è un linguaggio universale? L'unico linguaggio che elimina le differenze, che può garantire la comprensione e la pace in tutto il mondo? Certo, l'abbiamo gridato con gioia, mandando ovunque le nostre orchestre, convinti che nessuno quanto Claudio Abbado, quanto Riccardo Muti possano testimoniare l'unione fra i popoli. Ma questo è vero per noi, ossia per una civiltà che ha camminato in continuazione verso la libertà, mettendo all'angolo con assoluta sicurezza qualsiasi cosa fosse d'intralcio a questa libertà, dalle remore di S. Agostino che non voleva l'esecuzione della musica nelle chiese al trionfale superamento del canto gregoriano con lo splendore di Pergolesi, di Bach. È in base a questo continuo cammino verso la libertà che fra il nostro mondo e quello musulmano c'è un abisso incolmabile. Il Corano è fondato sulle credenze di un popolo di pastori nomadi di circa ottomila anni a. C., quello mosaico (i primi cinque libri dell'Antico Testamento); ha mantenuto sempre le stesse norme, gli stessi precetti, gli stessi tabù, da quelli fra i sessi, a quelli del cibo, dello spazio, del tempo, del vestiario e ha mantenuto sempre anche le stesse norme etiche, la stessa legge penale, quella che punisce il corpo, che si serve del corpo. È questo insieme che forma una cultura. Togliamoci dalla mente - ma soprattutto se lo tolgano dalla mente i politici - che i musulmani si possano o si debbano «integrare».
Per farlo dovrebbero abbandonare la loro cultura-religione, cosa che non vogliono e non possono fare. La coesistenza porterà, come sta già avvenendo, a tribunali separati, scuole separate, quartieri separati e, per noi, alla peggiore vita possibile.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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