Sherlock Holmes affronta il suo caso nel «Mastino dei Baskerville» ponendosi il quesito del perché il cane non abbia abbaiato quando l'assassino ha colpito. È da un dilemma simile che ci si deve muovere per analizzare il caso Pomigliano d'Arco. Solo qualche anno fa, Sergio Cofferati e la sua Cgil, in parte distorcendo le posizioni del governo, in parte solleticando conservatorismi di fondo di larghi settori di lavoratori italiani, avevano incendiato le piazze contro la legge Biagi e le proposte di riforma dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Oggi la Cgil è quella pilatesca di Guglielmo Epifani (né con la Fiat né con la Fiom) ma il fronte anti-Marchionne non è affatto limitato: oltre alla Fiom, oltre un solido arco estremistico (con in testa Nichi Vendola, Antonio Di Pietro e il plauso di Rosy Bindi), c'è la benevolenza di un quotidiano influente come La Repubblica e perfino la semina di dissensi da parte di ex dirigenti Cisl malamente risentiti. E c'è lo slogan di fondo («si violano diritti fondamentali dei lavoratori») che era stato particolarmente «mobilitante» all'inizio degli anni Duemila. Eppure, anche se un'opposizione ribellistica - che pure è stata nettamente sconfitta a Pomigliano - ha conquistato qualche consenso in più di quello che qualcuno prevedeva, il dato sociale di fondo è che nel Paese non c'è una solidarietà diffusa per i presunti «diritti violati» degli operai campani. Perché «il mastino» non abbaia?
Naturalmente c'è la consolidata valutazione su dove la confusa protesta cofferatiana abbia portato i lavoratori qualche anno fa, naturalmente c'è l'esperienza della forte collaborazione imprenditori-lavoratori di fronte alla durissima crisi del dopo 2008, ma l'elemento decisivo della «non solidarietà» con chi non vuole impegnarsi a salvare Pomigliano e avrebbe i diritti conculcati, nasce da una critica largamente presente tra i lavoratori italiani in generale contro un certo ribellismo meridionale e anche un certo ribellismo di parte del sindacalismo Fiat. Lo stesso Sergio Marchionne ha ricordato le scadenti relazioni industriali che ha trovato quando ha assunto la leadership della fabbrica torinese. «Relazioni» che in parte giustificano malumori ancora esistenti: così in uno stabilimento pur modello come quello di Melfi dove per esempio erano carenti le prospettive di crescita professionale.
Ma in generale quello che ha caratterizzato il gruppo torinese nel passato è stato lo scambio tra condizioni di lavoro anche mediocri ma sicure con diseconomie coperte grazie alla politica. Proprio per queste ragioni «politiche» largamente conosciute, più di una volta posizioni di ribellismo Fiat si sono trovate isolate non solo nel più ampio schieramento dei lavoratori italiani ma anche nella stessa azienda: così all'inizio degli anni Ottanta, così avviene oggi.
A isolare, poi, l'estremismo di ambienti non prevalenti (ma non limitati) di Pomigliano, c'è anche una qualche insofferenza di larghi settori di lavoratori (e non solo settentrionali) per un certo ribellismo meridionalista non solo operaio ma anche di politici che per esempio contestando le riforme in senso federalistico non cercano il riscatto e la giusta e opportuna solidarietà nazionale, bensì il rifiuto dei doveri che i loro concittadini si assumono.
Oggi con una competizione globale che rende complesso sviluppare la nostra industria innanzi tutto dell'automobile, con un Mezzogiorno in cui alla crescita di alcune aree corrispondono i disagi di molte altre, il problema non è solo esaminare i guasti del ribellismo inconcludente. È evidente come Marchionne abbia avviato in ritardo la riflessione sugli stabilimenti italiani della Fiat, probabilmente condizionato da chi gli prospettava anche all'interno del suo gruppo il solito «scambio politico».
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