E spunta l’incubo di una nuova Pearl Harbor

di Reza Kahlili è lo pseudonimo di un agente della Cia che era riuscito ad infiltrarsi nelle Guardie rivoluzionarie iraniane. Il Washington Times Magazine ha pubblicato il 27 gennaio un suo lungo articolo in cui racconta come Teheran non solo si sforzi di creare un ordigno nucleare ma che possiede almeno un paio di ordigni (oltre a 1000 missili in parte puntati sulle basi americane nel Medio Oriente e Europa) che avrebbe ottenuto grazie alla mediazione di Abdul Kader Khan, il padre della bomba pakistana.
Questo darebbe credito alla minaccia formulata l’anno scorso dal giornale Kayhan secondo la quale l’Iran, se attaccato, potrebbe colpire infrastrutture - dice Kahlili - di 310 milioni di americani. Catastrofica o no una previsione del genere, è per lo meno inusuale che il quotidiano statunitense pubblichi in prima pagina da Tel Aviv un dettagliato rapporto sulle discussioni in corso al più alto livello politico israeliano sulla necessità «esistenziale» di lanciare un attacco contro le strutture atomiche iraniane, con o senza l’accordo di Washington. L’essenza di questo rapporto (che dalla prima pagina si estende ad una intera pagina interna) è che la decisione risiede oggi nelle mani di tre persone: il premier Netanyahu e il ministro della difesa Barak, entrambi convinti che occorre agire visto la lentezza dell’applicazione delle sanzioni da parte dell’America e dell’Europa e il Capo di stato maggiore generale Gantz, ex addetto militare a Washington, che a un attacco del genere ancora si oppone. È su questo generale (secondo l’articolo firmato da Ronen Bergman, giornalista israeliano specializzato nelle questioni militari) che sono dirette le pressioni americane per prevenire l’azione israeliana. Significativa la scritta lasciata la settimana scorsa dal Capo di stato maggiore americano generale Dempsey, nel libro dei visitatori d’onore del monumento all’Olocausto - Yad va Shem - di Gerusalemme. Sottintendendo «non attaccate», il generale afferma: «Ci occuperemo noi a che voi non siate minacciati da un secondo Olocausto». Il punto è che Netanyahu e Barak non ci credono. Respingono l’idea ventilata a Washington e in Europa di un possibile coesistenza di un Iran armato di bomba con Israele anche lui dotato di armi nucleari. Teheran metterebbe infatti in moto una corsa all’armamento nucleare in Arabia Saudita e in Egitto che distruggerebbe le potenzialità di difesa preventiva di Israele.
Obama sta inviando messaggi sempre più pesanti e specifici a Netanyahu per metterlo in guardia contro l’eventuale decisione di attaccare l’Iran nella convinzione che le sanzioni economiche adottate dall’America e dall’Europa rallenteranno il processo di nuclearizzazione militare di Teheran (l’accettazione iraniana di una visita di ispettori dell’Agenzia internazionale atomica nei suoi siti nucleari parrebbe confermare questa tesi). Ma in Israele non solo si dubita dell’effetto delle sanzioni ma si pensa che potrebbero avere un effetto contrario. Anche se le condizioni sono differenti lo strangolamento dell’economia iraniana potrebbe portare a una nuova «Pearl Harbor». L’attacco giapponese contro la base navale americana nel 1941 fu infatti dettato dalla combinazione del nazionalismo nipponico col bisogno di Tokyo di rompere l’accerchiamento economico.

Se è vero, come alcuni credono, che il regime di Teheran sia vicino alla creazione della bomba (o forse ne ha già un paio a disposizione) l’azione militare diventerebbe un interesse comune di Gerusalemme e Washington. Il problema attuale per l’America sembra però sapere cosa passa nella testa di Netanyahu per il quale il pericolo rappresentato dall’Iran è superiore solo a quello di una rielezione di Obama alla presidenza.

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