Ecco come D’Alema fa quello che vieta agli altri

Il Massimo dell'incoerenza. S’indigna per il premier ma chiese l’immunità sul caso Unipol. "Sono democratico", però farebbe votare solo gli intellettuali. Ha diretto l'Unità, però considera i giornalisti "iene dattilografe" da epurare

Ecco come D’Alema fa quello che vieta agli altri

Intelligente per definizione, pur non svettando in altezza Massimo D’Alema riesce a guardare tutti, amici, nemici, alleati, conoscenti, popoli, sempre e solo dall’alto in basso. Con l’aria sufficiente di chi ne sa di più, Max mantiene il profilo del veterano che non si sporca le mani con le beghe di partito, ma è tutta una finta. È lui il manovratore più abile della macchina partitica, è lui che mentre appare concentrato in alti pensieri sul destino della Patria lavora incessantemente alle trame interne, muove pedine, manda avanti i suoi alfieri (l’ultimo è Bersani), sposta e dirige il traffico di bottega (ancora parecchio oscura) come un vigile, tutti gli altri dentro il Pd gli fanno un baffo, e lui di baffi se ne intende perché li porta da quando era un ventenne già capo della Fgci. Almeno in questo, sul baffo, D’Alema è coerente. Per il resto Massimo «Spezzaferro», come lo chiamavano i compagni perché si vantava di piegare i tappi delle birre con due dita, coltiva come molti colleghi l’arte del mimetismo ideologico, dell’incoerenza militante.
L’ultimo vuoto di memoria è nell’intervista di ieri al Riformista, dove D’Alema si indigna perché l’immunità del Lodo Alfano sarebbe «un argine totalmente inappropriato», e perché insomma un uomo di Stato deve rispondere davanti alla giustizia, senza scudi o lodi. Quando però il gip Clementina Forleo chiese l’autorizzazione per utilizzare le sue telefonate con i furbetti di Unipol, lui si parò dietro l’immunità da ex parlamentare europeo, e l’Europa gli concesse lo scudo, che ora reputa inaccettabile. Ne ha beneficiato, D’Alema, anche se tempo prima il suo pensiero sembrava chiaro: «Chi viene eletto dal popolo non può essere processato, è un’idea che non ha un fondamento in nessun Paese civile e che finirebbe per gettare discredito sulle istituzioni democratiche». Si vede che le immunità sono come gli abiti sartoriali, sua passione: tutto dipende da chi li indossa.
La sua incoerenza ha dietro una scienza particolare, il cui principio base fu lui stesso a spiegare, in una formidabile risposta tempo fa: «Io ho vissuto seguendo sempre gli stessi ideali. È il mondo che è cambiato profondamente». Ecco qui il nocciolo della superiorità dalemiana rispetto all’esistente: non è lui l’incoerente che da ragazzino frequentava i campi pionieri in Urss e che poi da adulto avrebbe esaltato la democrazia Usa dei Clinton e degli Obama, ma è il mondo che cambia senza dargli il giusto preavviso. Lui rimane fedele ai suoi solidi principi democratici (mentre «Berlusconi è a-democratico»), fermo come un semaforo. Almeno così dice lui.
Una linea salda e irremovibile, per esempio, sulla libertà di stampa e sui giornalisti, martiri del libero pensiero se li querela il nemico, «iene dattilografe» (copyright Stalin) se invece criticano lui, il primo della classe globale. Eppure è lui stesso un giornalista, arrivato a dirigere L’Unità pur di scalare il partito, sebbene anche da quella poltrona si distinse subito per insofferenza alla satira, facendo chiudere l’inserto umoristico «Tango». Da premier poi era parecchio infastidito dall’esistenza stessa della stampa, spiegò che i giornali dovevano restare nelle edicole e che se avesse dovuto comunicare qualcosa avrebbe semplicemente chiamato una telecamera. Era lo stesso D’Alema che ora manifesta in piazza in difesa dei giornalisti, che freme perché «gli spazi di libertà si stanno facendo sempre più ristretti», perché in Italia «la libertà di informazione è a rischio».
In altri momenti però sentiva la problematica in ben altro modo (come ha ricordato Giampaolo Pansa su Libero): «In questo Paese non si potrà fare qualcosa finché ci sarà di mezzo la stampa. La prima cosa da fare quando nascerà la Seconda Repubblica sarà una bella epurazione dei giornalisti in stile polpottiano», è un D’Alema annata 1993. Visto così sembrerebbe un tipo contraddittorio, ma credeteci, il disprezzo per la stampa è rimasto invariato negli anni.
Il Conte Max, amante delle scarpe artigianali e delle vele, ha questa particolarità: non ne ha mai azzeccata una, ma ha l’allure dell’Infallibile. È così che i suoi peggiori nemici sono annidati nell’orto di casa. «Come può una persona che non ne ha indovinata mezza continuare a ritenersi necessaria?» si è chiesto Massimo Cacciari, che chiama Max «il solito noto». L’ultima profezia alla rovescia è stata quella sulle imminenti scosse, preannunciate da Dalemix (altro soprannome) prima dell’estate. Dovevano far tremare il governo berlusconiano, le famose «scosse», invece hanno fulminato mezzo Pd, che trafficava in protesi sanitarie con il bon vivant Tarantini, da Bari, occasionale compagno di navigazione di «Max il gelido».
Solida formazione Pci, figlio di comunista attivo nel partito, ragazzo prodigio subito sponsorizzato dalla nomenklatura rossa, da tempo Baffino non si dice più comunista, ma solo «democratico e anche socialista». Eppure il popolo, esaltato dalle Internazionali, gli piace pochissimo. Fosse per lui (se lo lasciò sfuggire una volta) dovrebbero votare «solo quelli che leggono i giornali, anzi solo quelli che leggono i libri».

Il suffragio universale, questa schifezza. La sua carriera è così, costellata di sconfitte, contraddizioni e cambi di direzione. Una volta ha confessato di amare il «Risiko», e di simulare sempre la battaglia di Waterloo. Quella, va detto, gli riesce benissimo.

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