Ecco perché Draghi può salire alla Bce

La candidatura del governatore di Bankitalia nasce anche dai dubbi interni all’asse franco-tedesco sul quale l’Europa vive da 20 anni. E così, anche grazie alle recenti scelte di Berlusconi in politica estera, cresce il peso italiano

Ecco perché Draghi può salire alla Bce

Jean-Claude Trichet lascia la presidenza della Banca centrale europea nell’ottobre del 2011, ma i giochi sono già aperti. Martedì 16 si sceglie il successore del vicepresidente, il greco Lucas Papademos. Questa scadenza condizionerebbe la futura presidenza: se vince un portoghese (in corsa Vitor Constancio) sarà difficile per un italiano sostituire Trichet, se si punta sul belga Peter Praet o sul lussemburghese Yves Mersh, sarà il tedesco in difficoltà. Secondo autorevoli osservatori queste valutazioni sono bufale. Il governatore Mario Draghi ha chance per prevalere. Sulla candidatura si è aperto un acceso dibattito «nazionale». Per alcuni l’Italia deve impegnarsi comunque per un candidato tricolore: e Paolo Bonaiuti ha assicurato che non mancherà l’impegno di Palazzo Chigi. Per altri Draghi va sostenuto non perché italiano, ma «europeo»: sarebbe il tecnico imbattibile che i tempi richiedono. L’attenzione agli interessi della nazione, l’elogio di un supertecnico sono preziosi, però non esauriscono i vari lati della discussione. E non è un tradimento evitare falsi pudori.

È, invece, stravagante elogiare i tedeschi che criticano la candidatura assai robusta di Alex Weber, attuale guida della Bundesbank, e autoimporsi una sorta di «taci, il nemico ti ascolta».
Nel merito, molti giudicano la nostra scarsa rappresentanza espressione di una inconsistenza di fondo e indicano nella nomina di Draghi un ultimo inesorabile appello. Questa tesi è fallace perché, se fosse vera, i «dominatori» dell’Europa sarebbero portoghesi, lussemburghesi, belgi e in parte spagnoli o polacchi che hanno «vinto» le ultime cariche talvolta anche contro un «italiano». In realtà, l’Italia non viene «premiata» perché troppo debole, ma in quanto «relativamente» troppo forte.

L’Europa vive da 20 anni su un asse franco-tedesco che non vuole essere disturbato: quando deve cedere a un inglese preferisce l’anonima Catherine Ashton, che già in un paio di settimane ha fatto vedere la sua fragilità, a Tony Blair. O a un italiano «tosto», come Massimo D’Alema. I «tecnici» italiani in Europa hanno successo quando guardano più a Parigi o a Berlino che a Roma: così, quando regnavano Jacques Chirac e Gerhard Schroeder (giustamente finiti nella pattumiera della storia), l’Europa si è divisa con la testa istituzionale (anche quella euro-italiana contro Roma) contrapposta agli Stati Uniti che magari andavano corretti ma non isolati.
Oggi se per Draghi vi sono chance di vittoria (e ci sono) queste nascono da un quadro internazionale in movimento e da un «peso italiano» che diventa una carta presa in considerazione anche dai franco-tedeschi. Così con la Russia verso cui Roma, proprio per il rilanciato filoamericanismo, si permette una politica più audace di ricucitura. Così con il mondo arabo, dove i legami con Israele offrono più spazi di manovra, così con l’Iran verso il quale Washington usa la fermezza italiana come chiave fondamentale di pressione. E così sulle questioni della regolazione della finanza globale, dove le tesi di Giulio Tremonti sono diventate per alcuni versi di Barack Obama. La candidatura di Draghi avrebbe potuto prevalere magari perché, secondo qualche opinionista (vedi gli articoli del Financial Times), non «rafforzava» Roma. Sta diventando invece un fatto politico più complesso che nasce dai dubbi interni allo stesso asse franco-tedesco sulla sua adeguatezza e sulla necessità di riaprire (e d’intesa con Mosca) un rapporto con una Washington preoccupata per tanti versi sia per Teheran sia persino per Pechino (e G2).

L’asse Roma-Draghi può oggi vincere non solo perché c’è in ballo un supertecnico, perché bisogna dare «qualcosa» agli italiani, ma in quanto c’è una proposta politica che convince più di una testa pensante.

Ed è di questo che si parla in Germania, ed è per questo che lì si dividono e così decollano anche i disperati tentativi di blindare il candidato tedesco. Se si ragiona su un quadro meno provinciale di ciò che è in ballo, forse tutti, governo e stampa, potranno aiutare a far prevalere un grande tecnico di un grande Paese.

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