«Fate presto!». Janet Yellen esorta il Congresso Usa a trovare in fretta un accordo per aumentare il tetto del debito. Di bisticcio in bisticcio, repubblicani e democratici hanno per mesi tirato la corda nonostante il limite dei 31.381 miliardi di dollari fosse già stato raggiunto lo scorso 19 gennaio. Il segretario al Tesoro sa che la sabbia si sta depositando sul fondo della clessidra, al punto da lanciare un ultimatum: se l'intesa non verrà raggiunta in fretta, il primo giugno l'America andrà in default.
Non è la prima volta che l'ex leader della Federal Reserve sprona Capitol Hill a mettere da parte le divisioni per evitare «una catastrofe economica e finanziaria». Questo flirtare col pericolo non è infatti nuovo negli States. A volte, però, si gioca col fuoco: nell'agosto del 2011 il continuo temporeggiare del parlamento sul «debt ceiling» indusse Standard&Poor's a declassare per la prima volta nella sua storia il rating statunitense, tagliandolo da AAA («eccezionale») ad AA+ (eccellente), mentre Wall Street finiva al tappeto. «Abbiamo appreso dalle passate impasse del limite del debito - ammonisce infatti la Yellen in una lettera inviata al Congresso - che aspettare fino all'ultimo può causare gravi danni».
Il senso dell'urgenza è dato anche dal fatto che da qui a giugno sono appena 12 i giorni in cui è possibile legiferare. Una finestra temporale strettissima che ha suggerito al presidente Joe Biden di chiamare a raccolta, il prossimo 9 maggio, i quattro principali leader del Congresso per discutere della questione. Anche perché l'assenza di un «deal» non è priva di conseguenze: per evitare di superare il limite di indebitamento, il Tesoro sta sospendendo l'emissione dei titoli Slgs, cioè il canale di finanziamento degli enti pubblici statali e locali. Un primo segnale di ciò che potrebbe accadere, su amplissima scala, se le parti continuassero a litigare fino a tempo scaduto.
Il bubbone rischia peraltro di scoppiare in un momento in cui l'America ha il fiato corto sul versante economico (+1,1% il Pil nel primo trimestre) ed è in forte debito d'ossigeno su quello finanziario a causa della delicata situazione in cui versa il settore bancario. Il salvataggio di First Republic da parte di JPMorgan non ha rasserenato il clima. Il numero uno di JPMorgan, Jamie Dimon, ritiene ormai finite le turbolenze che hanno investito il mondo del credito, ma alcuni analisti mettono in guardia da «altri problemi che potrebbero essere in agguato». Gli affanni di ieri di Wall Street (-1,47% a un'ora dalla chiusura), provocati dal monito della Yellen e soprattutto dai ribassi dei titoli bancari, segnalano che queste tensioni saranno il convitato di pietra nella riunione in cui oggi la Fed annuncerà quasi sicuramente un altro rialzo dei tassi da un quarto di punto. I falchi vorrebbero un'azione più decisa, ma Jerome Powell è costretto a muoversi con grande cautela.
Quanto alla Bce, che si riunisce domani, non sono attesi cambiamenti di linea: una stretta dello 0,50% sarà il «cadeau» primaverile con cui Madame Lagarde respingerà le richieste delle colombe di non calcare la mano, nonché l'invito del ministro degli Esteri, Antonio Tajani, a mantenere lo status quo perché in questo momento serve aiutare la crescita.
La risalita dell'inflazione in aprile nell'eurozona è del resto il miglior assist offerto all'ala dura dell'istituto, e la reazione delle Borse (-1,65% Milano, -1,24% lo Stoxx600) dimostra come un allentamento delle strette sia del tutto scomparso dai radar.
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