Alla Federal Reserve piace giocare col fuoco. Anche se Jerome Powell prova a fare il pompiere sui tassi, in libera circolazione c'è sempre qualche incendiario. Tipo Jim Bullard. Nel giorno delle «quattro streghe», la seduta in cui scadono future e opzioni su indici e azioni e le Borse sono per tradizione «ballerine», il presidente della Fed di St. Louis ha pensato bene di sganciare la bomba: «Abbiamo messo sul tavolo l'ipotesi di iniziare (ad alzare il costo del denaro, ndr) a partire dalla fine del 2022. La discussione sul tapering è aperta. Ci vorranno diversi incontri per organizzare ma la pandemia sta volgendo al termine, quindi è molto naturale che iniziamo a pensare a come ridurre le misure di emergenza». Parole che hanno messo ulteriormente di malumore i mercati, già resi ipersensibili dalla notizia che nel board della banca centrale Usa è ora prevalente l'idea di alzare almeno un paio di volte il costo del denaro nel 2023, in anticipo rispetto alle attese. Così giù le Borse (-1,3% Wall Street a un'ora dalla chiusura, -1,6%l'EuroStoxx600 e Milano -1,93%). Un movimento ribassista cui ha fatto da contraltare il rafforzamento del dollaro, sceso sotto quota 1,19 nel rapporto con l'euro.
L'orientamento in senso restrittivo di Eccles Building e la sostanziale conferma che il summit di agosto a Jackson Hole sarà il verosimile teatro per annunciare il taglio del piano di acquisto di titoli, pari ora a 120 miliardi al mese, depongono a favore del biglietto verde. Per la verità, nelle ultime ore si è accentuato un fenomeno tracciabile da almeno un mese e riconducibile ad almeno un paio di fattori: i 1.900 miliardi messi sul tavolo da Joe Biden per agevolare la ripresa economica e il passo spedito della campagna vaccinale. Il combinato disposto di questi due elementi ha impresso un'accelerazione tale alla recovery da indurre infatti la Fed a rivedere al 7% l'incremento del Pil atteso per quest'anno. Ma la forza del greenback deriva anche dalla debolezza altrui. Non per niente la numero della Bce, Christine Lagarde, ha di recente sottolineato come non sia il caso di fare paragoni con l'America, dal momento che «siamo in due stadi diversi del ciclo economico». Non potrebbe essere altrimenti: nell'eurozona la crescita prevista è del 4,6%, ma è disomogenea (e ciò contribuisce, all'Eurotower, a stressare la discussione sulla tempistica del ritiro degli aiuti) e gli stanziamenti previsti dal Recovery Fund non sono paragonabili allo sforzo finanziario degli Usa.
Prevedere se i rapporti di cambio resteranno favorevoli al dollaro, anche solo da qui a un mese, è praticamente impossibile. La spinta garantita da una Fed col piumaggio del falco può, per esempio, esaurirsi presto. L'andamento attuale incorpora una certa dose di emotività, ma da qui a due anni - il tempo che dovrebbe intercorrere prima di assistere alla prima stretta sui tassi - può succedere di tutto. Se è molto improbabile una replica di quanto accaduto nel 2001, quando con un euro si acquistavano appena 83 centesimi di dollaro, resta comunque da capire fino a che punto l'amministrazione Biden potrà tollerare una moneta forte. Durante il suo mandato, per favorire i produttori americani, Donald Trump aveva attaccato frontalmente la Germania, colpevole di sfruttare gli Usa grazie «alla sottovalutazione dell'euro».
Ora, invece, la Casa Bianca potrebbe puntare al rafforzamento della valuta per spingere al ribasso i prezzi delle materie prime e ottenere così sollievo sul fronte dell'inflazione. Una strategia da bilanciare con cura, perchè comporta controindicazioni per il commercio e per l'impatto sui Paesi emergenti che hanno debiti espressi in dollari.
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