Il premio Nobel per l'economia Paul Krugman non ha dubbi: se la Federal Reserve non taglia subito i tassi, gli Usa scivoleranno in recessione. È lo stesso invito che il ministro degli Esteri Antonio Tajani e il numero uno dell'Abi Antonio Patuelli hanno rivolto alla Bce. Pressioni condivisibili: a fronte di un deterioramento rapido come un centometrista della congiuntura globale, le banche centrali sono ancora ai blocchi di partenza. Ma il punto cruciale è un altro, e chiama in causa soprattutto la velocità con cui verrà modificata la politica monetaria, sia negli Stati Uniti sia all'interno di Eurolandia, a partire da settembre.
L'impressione è che la postura da bradipo, assunta dopo aver riportato l'inflazione su livelli più sostenibili, non verrà abbandonata. Un sondaggio condotto da Bloomberg su un campione di economisti riferisce infatti che l'istituto guidato da Christine Lagarde ridurrà i tassi una volta ogni trimestre fino alla fine del prossimo anno arrivando dunque nel dicembre del 2025 al livello del 2,25%, dall'attuale 4,25%. A parte il piccolo brivido keynesiano provocato da previsioni a così lunga scadenza, un percorso al piccolo trotto indica che l'Eurotower normalizzerà la politica monetaria restando sostanzialmente insensibile al peggioramento del ciclo economico, senza cogliere quindi le raccomandazioni di Tajani tese a farne un propulsore di crescita. Va da sè che questo atteggiamento, non censurabile da coloro che sottolineano come l'unico obiettivo della Bce sia la stabilità dei prezzi, non terrà in alcun conto l'andamento nel terzo trimestre del Pil nell'eurozona che sarà reso noto domani e confermerà gli affanni della Germania, già in contrazione fra aprile e giugno.
Seppur Madame Lagarde ripeta ad libitum che l'istituto è data dipendent (un segno dell'incapacità di governare gli eventi), il solo dato degno di attenzione sarà quello del prossimo 30 agosto sull'inflazione di luglio che probabilmente non si discosterà dall'aumento dei prezzi del mese prima (+2,6%). È un valore, non troppo distante dal target del 2% della Bce, che rende difficile giustificare i 15 mesi di attesa necessari, secondo Bloomberg, per sgonfiare i tassi di 200 punti base. Un lasso di tempo in cui il rinnovato Patto di stabilità metterà sotto stress i Paesi più indebitati, con il rischio di tensioni sui titoli di Stato impossibili da contrastare con quell'arma spuntata che è il nuovo scudo anti-spread (Tpi).
Come osserva Michael Hartnett, chief strategist della Bank of America, il nodo è che i tagli, per aver efficacia, non dovranno essere dispensati col contagocce. Ciò vale soprattutto per la Bce, ma anche per la Fed. I recuperi di Wall Street dopo il Black Monday hanno eliminato la necessità d una riunione di emergenza. Eppure, le possibilità di una sforbiciata di mezzo punto già in settembre restano ancorate al 75%. Come se il mercato stesse prezzando il fatto che il capo di Eccles Building, Jerome Powell, ignaro dell'impatto di scelte così radicali nell'ultimo miglio della campagna per le presidenziali, è pronto ad ammettere il precario stato di salute dell'economia Usa. C'è però chi, come Morgan Stanley, sostiene che per convincere la Fed ad abbandonare la propria strategia occorrerebbe un crollo, attorno alle 100mila unità mensili, dei nuovi posti di lavoro.
Giusto per sostenere la narrazione dell'atterraggio morbido, si tende a ignorare che l'Household Survey ha aggiunto zero posti di lavoro nell'ultimo anno; che le inadempienze legate alle carte di credito sono più elevate ora rispetto al 2019; e che le ricerche web dei consumatori per camere, voli e crociere sono diminuite drasticamente negli ultimi trimestri. Tre indizi sufficienti a provare che la recessione è nell'aria e che non è più tempo per bradipi.
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