Una raffica di rialzi dei tassi ha seguito ieri la decisione presa mercoledì scorso dalla Federal Reserve di aumentare dello 0,25% il costo del denaro. C'è chi, imitando Jerome Powell, ha preferito usare la mano leggera. Tipo la Bank of England, malgrado un'inflazione 10,4% in febbraio, e la Norges Bank (per entrambe mini-stretta da un quarto di punto), mentre la Banca nazionale svizzera ha seguito le orme della Bce, guidata da Christine Lagarde, con un ritocco verso l'alto dello 0,50 per cento.
Berna, al pari delle altre banche centrali europee, è così tornata a concentrarsi sulla lotta al caro-prezzi dopo aver strappato dal binario morto il Credit Suisse con un salvataggio al retrogusto di bail-in, cioè pagato dai contribuenti. Il fallimento, dicono da quelle parti, sarebbe stato «un atto irresponsabile» perché avrebbe minato la stabilità finanziaria. Tutto giusto. O quasi. Il «fuoco amico» che ha steso gli obbligazionisti del Cs con l'azzeramento del valore di 16 miliardi di franchi di bond Tier1 sarà anche stato legittimo poiché previsto dal contratto (e ancor più lecito «se viene concesso un sostegno straordinario da parte dello Stato», come asserito ieri dalla Consob rossocrociata), eppure «est modus in rebus». Serve il senso della misura, e la capacità di capire quando sono opportuni atti d'imperio. A maggior ragione se si è scelto di salvare il capitale sociale del Credit che, carta canta anche in questo caso, doveva essere il primo a venir sacrificato.
La decisione, con l'immediata minaccia di azioni legali da parte dei bondholder, ha invece creato turbolenze e scosso la fiducia, già ai minimi termini, dei mercati. L'ipersensibilità verso ogni notizia cattiva (o perlomeno letta in chiave negativa) dagli investitori riguarda anche e soprattutto il modo in cui si stanno muovendo i tassi d'interesse. Il concetto che sta passando è che le politiche monetarie possano non tener conto dello stress che sta investendo il mondo del credito, ritenendosi sufficienti la rete di protezione stesa attorno alle banche e la liquidità garantita. È un modo di ragionare pericoloso. Perché può funzionare solo in assenza di incidenti di percorso. I falchi della Bce insistono, come ha fatto ieri il governatore della banca centrale olandese Klaas Knot, nel pretendere un altro irrigidimento nella riunione di maggio. Il momento richiederebbe invece sia quell'«un approccio cauto nelle future decisioni di politica monetaria, data l'elevata volatilità» invocato dal governatore di Bankitalia Ignazio Visco, sia di soppesare con cura le parole. Ciò che non ha fatto mercoledì sera Janet Yellen. La segretaria al Tesoro ha messo forse la pietra tombale sullo scudo per i depositi sopra i 250mila dollari («Non ho considerato o discusso niente che avesse a che fare con una garanzia totale o su garanzie su tutti i depositi») mandando a gambe all'aria Wall Street (+0,4% ieri a un'ora dalla chiusura; -0,16% Milano) e contraddicendo Powell, che solo pochi minuti prima aveva garantito che «tutti i risparmi dei depositanti sono al sicuro». Il danno, peraltro, è già stato fatto. JPMorgan ha calcolato che depositi per 1.100 miliardi di dollari hanno già preso il volo dalle banche considerate vulnerabili.
Le parole incendiarie della Yellen rischiano di peggiorare la situazione.«La fiducia è una cosa seria», diceva un vecchio slogan: prima di aprir bocca, banche centrali e politici dovrebbero imparare a recitarlo come un salmo.
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