Si fanno sempre più sottili i margini di azione per i colossi cinesi dell'hi-tech. Pechino sta piantando di continuo paletti normativi che col passare delle settimane assomigliano a recinti col filo spinato. L'ultimo atto repressivo del Dragone, secondo quanto anticipato dal Wall Street Journal, è il piano con cui ai giganti di internet verrebbe vietato di quotarsi all'estero, con l'ovvia estensione del blocco alla Borsa di New York, dove solo nel primo trimestre ben 24 società dell'ex Impero Celeste sono state quotate per un controvalore di 5,8 miliardi di dollari. Il divieto dovrebbe entrare in vigore entro fine anno, con lo scopo dichiarato di mettere al riparo l'enorme massa di dati personali e sensibili degli utenti custoditi soprattutto dalle web corporation, mantenendo regole più lasche per altre aziende (per esempio quelle farmaceutiche). Il progetto di blocco sembra tuttavia una mossa per anticipare la Sec (la Consob Usa), al lavoro per congelare le Ipo cinesi a causa della scarsa trasparenza nel comunicare i rischi agli investitori.
In ogni caso, le motivazioni sembrano più di natura interna. Il provvedimento permetterebbe infatti a Pechino di esercitare un controllo maggiore sui big della tecnologia che adottano una struttura societaria complessa - come Alibaba, TenCent e Didi - per aggirare le restrizioni sulle Ipo oltre confine. Le azioni del gruppo di Jack Ma sono scese ieri di quasi il 4% dopo aver perso il 15% da inizio agosto. E l'Etf Invesco Golden Dragon China (Pg), che raggruppa le azioni cinesi quotate negli Usa, ha lasciato sul terreno il 26% nel trimestre a causa dell'aumento della pressione normativa.
Il governo cinese sta tuttavia esercitando in altri modi la propria azione repressiva sui giganti del web. Sotto tiro c'è infatti ora la cultura del superlavoro, esaltata dallo stesso Ma («È una benedizione») e sintetizzata da tre numeri: 996, in ufficio dalla nove del mattino alle nove di sera, per sei giorni alla settimana. La Corte suprema del Popolo e il ministero delle Risorse Umane hanno pubblicato linee guida in cui la pratica viene definita una «grave violazione della legge che riguarda gli orari massimi di lavoro», che prevede un limite di 36 ore al mese di straordinari.
Il nuovo orientamento prende spunto dal caso di un corriere di un'azienda tecnologica che ha fatto causa, vincendola, all'azienda per licenziamento illegale, dovuto al suo rifiuto di lavorare dodici ore al giorno per sei giorni alla settimana.RPar
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