Roberto Ramanzina ha preso l'ultimo stipendio in febbraio, da allora lavora senza essere pagato. E le sue giornate sono decisamente cambiate: «Il contratto con la società che puliva gli uffici è scaduto e non è stato rinnovato: ci siamo adattati, cerchiamo di tenere in ordine le stanze e a turno con i colleghi laviamo bagni e corridoi». Fino al 15 novembre è impiegato all'ufficio tecnico del comune di Campione d'Italia; poi, se il Tar non accoglierà il suo ricorso, resterà a casa. Anche lui è vittima del crac che ha coinvolto il Municipio: nel mese di giugno il sindaco ha dichiarato il dissesto e, prima di lasciare il posto a un commissario straordinario, ha applicato la legge, che prevede in questi casi la riduzione del personale in base al rapporto di un dipendente ogni 150 abitanti: su 102 impiegati, 86 sono stati licenziati.
Nei primi nove mesi dell'anno sono stati poco meno di una trentina i comuni italiani che hanno dichiarato bancarotta. I numeri del 2017 e del 2016 (rispettivamente 28 e 32 casi) sono destinati a essere superati; periodi come il 2014 o il 2015, in cui i fallimenti erano non più di 18 o 19, sembrano appartenere a un passato relativamente felice. Così il numero totale di comuni in «dissesto» (la procedura dura cinque anni) si è impennato fino a quota 123. E i centri in «pre-dissesto», una sorta di amministrazione controllata con regole per molti versi simili a quelli del crac vero e proprio, sono oltre 190. In tutto più di 300 comuni che vivono un'emergenza quotidiana.
Tra tutti i fallimenti quello di Campione è il più particolare: per anni il paese italiano incuneato in territorio svizzero è stato viziato dai soldi che arrivavano dal Casinò. Poi la gallina dalle uova d'oro è entrata in crisi, ma le spese del municipio non sono calate quanto avrebbero dovuto. All'inizio dell'estate gli amministratori si sono trovati di fronte a una montagna di debiti: 100 milioni di franchi per il casinò (a Campione i conti si fanno in moneta elvetica), 25 per il comune. La casa da gioco ha chiuso, il comune quasi. «Non ripariamo più le strade, la manutenzione dell'acquedotto è ferma», racconta Ramanzina. «Anche se in realtà siamo fortunati: a raccogliere i rifiuti sono delle ditte svizzere e noi non le paghiamo da tempo, ma loro vengono lo stesso. Dalla Svizzera arriva anche l'olio combustibile per le scuole e la casa-anziani, per l'inverno dovremmo essere tranquilli».
SERVIZI ADDIO
Quando un comune non riesce più a far fronte ai propri impegni, a pagare i fornitori o i dipendenti, la legge impone la nomina di un commissario che deve prendere in mano la situazione. Si fermano le azioni esecutive dei creditori, si cerca di trovare un accordo per il ripianamento dei debiti. Il comune non chiude i battenti, ma la sua attività riprende con la priorità di tagliare le spese: addio ai servizi non indispensabili, uffici aperti a orario ridotto, tariffe e addizionali tributarie devono essere portate a prezzi di costo o al livello massimo consentito dalla legge. «Queste sono solo le penalizzazioni più visibili», spiega Stefano Campostrini, docente di Management pubblico all'università veneziana di Ca' Foscari. «Poi ce n'è una nascosta: i fornitori alzano tutti i prezzi perché devono far fronte al rischio di non essere pagati o di ricevere i soldi con grande ritardo». A Ca' Foscari Campostrini ha creato la prima banca dati nazionale sui comuni in dissesto. «Negli ultimi 30 anni le dichiarazioni di crisi sono state circa 800 e hanno riguardato circa il 10% dei comuni», spiega. «Di recente sono aumentate e anzi, il fenomeno da eccezionale sta diventando abituale. Ma il dato fondamentale è il disagio di alcune aree del Paese».
Il disagio è semplice da raccontare: quasi il 90% dei casi di bancarotta si concentra in tre regioni: Sicilia, Calabria e Campania. In queste aree ci sono comuni che passano da un dissesto all'altro, a volte perfino senza nemmeno chiudere il precedente. Sullo sfondo c'è il taglio dei trasferimenti pubblici legati alla grande crisi finanziaria. Ma anche dell'altro: spese fuori controllo, l'incapacità di riscuotere i tributi locali dovuti dai residenti. «Il caso tipico è quello del comune che incassa poco o nulla ma in bilancio continua a iscrivere il suo credito, mantenendo così un apparente equilibrio. Solo che i crediti non vengono mai riscossi e alla fine i nodi vengono al pettine», racconta Campostrini. Come mai i tributi non vengono incassati? «Spesso gioca l'inefficienza degli uffici. Ma il problema è reale: la gente proprio non paga, e anche chi, per riscuotere si è affidato in passato a Equitalia non ne ha ricavato i benefici attesi. Manca il rapporto fiduciario tra cittadini ed ente locale». Uno dei casi che si possono citare a sostegno di questa tesi è quello di Catania.
BANDIERA BIANCA
La città è da anni in uno stato di pre-dissesto, una via d'uscita per i comuni in crisi introdotta nel 2012: si dà il via a un piano di riequilibrio finanziario, anche con l'aiuto dello Stato, per cercare di evitare il fallimento vero e proprio. Il percorso di rientro è sottoposto alla vigilanza della Corte dei Conti, ma proprio quest'ultima nella primavera scorsa ha alzato bandiera bianca parlando di «grave inadempimento del piano di riequilibrio» e di «assenza di trasparenza e veridicità dei conti». I debiti accertati si sono accumulati fino a superare gli 1,5 miliardi. Ma potrebbero essere molti di più, hanno scritto i giudici contabili in una sentenza di maggio. Quel che è peggio è che non si fa nulla per recuperare le entrate previste dalla legge: negli ultimi cinque anni il Comune ha riscosso solo una quota tra il 7 e il 22% delle tasse che gli spetterebbero. Quanto all'evasione pregressa si recupera solo il 3%; e per le multe è uguale se non peggio: nel 2016 risulta incassato solo il 6% delle contravvenzioni.
Visto il giudizio tranchant, non c'era via d'uscita se non il fallimento vero e proprio. E così sarebbe stato se all'inizio di settembre un provvidenziale emendamento al decreto Milleproroghe non avesse gettato una ciambella di salvataggio ai comuni in pre-dissesto, allargando le maglie della legge, allungando i tempi di pagamento e di rientro dal debito. Ad approfittarne non solo Catania, ma anche Napoli, altro comune da tempo in rianimazione finanziaria (vedi l'altro articolo in questa pagina). Del resto, interventi su misura per salvare questo o quel comune simbolo non sono nuovi. Il caso più noto è quello di Roma, la madre di tutti i fallimenti comunali. Nel 2008 una legge ad hoc liberò il Campidoglio dal suo enorme fardello di debiti (si litiga perfino per stabilire quanti fossero) per trasferirli a una «Gestione Commissariale per il Piano di Rientro». Da allora ogni anno lo Stato paga 300 milioni per colmare un po' alla volta il buco.
NUOVE NORME
Su debiti e deficit a dare il cattivo esempio sono soprattutto le grandi città (e soprattutto quelle del Centro Sud). In media però, e nonostante l'ondata di fallimenti degli ultimi anni, il comportamento dei sindaci è di solito finanziariamente responsabile. Secondo un indagine della Corte dei Conti relativa ai bilanci 2016 (gli ultimi disponibili e i primi a cui si applicano le nuove norme che impongono il pareggio tra entrate e uscite) i comuni in perdita sono 488, un numero tutto sommato ridotto. Bastano questi però per raggiungere un deficit complessivo che sfiora i 2,9 miliardi.
Anche per il peso del «rosso» c'è chi sta pensando a una riforma delle norme sui comuni in crisi. «Le procedure sono lente e spesso poco incisive», dice Marcello Degni, docente a Ca' Foscari e magistrato della Corte dei Conti, «L'obiettivo sarebbe quello di creare una sorta di corsia d'emergenza: un tavolo a cui partecipino il Ministero dell'Interno, quello dell'Economia e l'Anci, l'associazione dei comuni. Sarebbero loro ad affiancare il comune in rosso e a portarlo fuori dai pasticci con un percorso simile a quello delle Regioni con la spesa sanitaria fuori controllo».
In attesa della riforma continuano i dissesti.
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