Dieci minuti scarsi di discorso, contro la mezz'ora prevista, per spezzare, una volta per tutte, le speranze di Wall Street: i tassi d'interesse continueranno a prendere l'ascensore fino a quando domanda e offerta non si saranno riallineate, ponendo le basi per una ritirata duratura dell'inflazione.
«Riportare la stabilità dei prezzi richiederà di mantenere una politica restrittiva per diverso tempo. La storia ci insegna ad avere cautela contro un allentamento prematuro della politica monetaria». In passato spesso titubante e cerchiobottista, timido fino ad apparire debole al cospetto di Trump, in quel di Jackson Hole il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, decide di sfoderare gli artigli da falco. Senza se e senza ma. Nessuna morbidezza, durante la lettura di uno speech che è un condensato di spigoli per i mercati, rapidi nell'infilare il tunnel del ribasso: si piega subito la Borsa Usa con una caduta in verticale del Dow Jones di 500 punti (-1,8% a un'ora dalla chiusura), cede l'Europa (-2,2% Francoforte, -2,5% Milano), con lo spread Btp-Bund che si arrampica fino a 233 punti mentre i redimenti del decennale balzano al top da due mesi, al 3,75 percento.
È la fine del sogno di mezza estate: il ritorno alla normalità, quello buono per il «business as usual», è ancora di là da venire. Riporta tutti coi piedi per terra, il capo di Eccles Building: non è sufficiente il calo di un mese dei prezzi, come in luglio, per cambiare rotta o pensare che il pivot dei tassi sia ormai quasi stato raggiunto. Questa è solo un'illusione priva di fondamento, basata su un ragionamento di tipo geometrico (del tipo: da quando hanno ripreso a salire, i tassi sono aumentati di 10 volte, da 0,25 a 2,50%, e quindi l'inasprimento è già massiccio), non suffragata dall'intenzione della Fed di «usare vigorosamente tutti gli strumenti» per piegare il carovita, pur nella consapevolezza che l'opera di restringimento delle maglie monetarie creerà «alcune sofferenze» all'economia. Anche se Powell evita accuratamente di parlare di recessione, saranno inevitabili ripercussioni sul mercato del lavoro sotto forma di licenziamenti e e sui budget domestici già sotto stress.
L'entità delle conseguenze provocate dal fuoco amico dipenderà dalle prossime mosse dell'istituto di Washington, già a partire da settembre. Dopo due strette consecutive da tre quarti di punto, la frangia più hawkish del board potrebbe aver voglia di forzare ancora la mano. Qui, però, Powell si fa cauto: «Le nostre decisioni dipenderanno dai dati in arrivo», con chiaro riferimento ai due macro-indicatori che faranno da bussola decisionale: i dati sui prezzi al consumo, in particolare l'indice Pce (calato il mese scorso dello 0,1% rispetto a giugno) e quelli sull'occupazione. Comunque vada, «continueremo a usare misure energiche e rapide fino a quando non saremo sicuri che il lavoro è fatto». È ormai del tutto evidente che la Fed ha sciolto il dilemma se combattere le spinte inflative, o se preservare la ripresa. La priorità è la lotta contro i rincari. Powell sembra aver fatto propria la lezione di Paul Volcker, che per domare l'iper-inflazione degli anni Ottanta non esitò ad alzare il costo del denaro fin sopra il 20%.
E, non a caso, nel suo discorso a Jackson Hole viene citata una frase dell'illustre predecessore: «L'inflazione si nutre in parte di se stessa, quindi parte del lavoro per tornare a un'economia più stabile e più produttiva deve essere quello di rompere la morsa delle aspettative inflazionistiche». Anche a rischio, come accadde allora, di far schiantare al suolo l'economia.
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