Finalmente è arrivato il tax free day, il tanto atteso giorno della liberazione fiscale. "Incluse le festività nel 2017 sono stati necessari 153 giorni per scrollarci di dosso la morsa del fisco; ben 38 giorni in più rispetto al dato registrato nel 1980". A dirlo è Paolo Zabeo, coordinatore dell'Ufficio studi della Cgia sulla base di uno studio condotto insieme ad altri ricercatori.
Il tax free day: si lavora 5 mesi su 12 per lo Stato
L’Ufficio studi della Cgia ha preso in esame il dato di previsione del Pil del 2017 e lo ha suddiviso per i 365 giorni dell’anno, ottenendo così un dato medio giornaliero. Poi ha considerato il gettito di imposte, tasse e contributi che gli italiani verseranno quest’anno e lo ha “frazionato” per il Pil giornaliero. Il risultato ha determinato il 3 giugno come data media a partire dalla quale gli italiani “salutano” il fisco e iniziano a lavorare per sé e non per lo Stato."Lavorare 5 mesi su 12 per lo Stato – ha spiegato Zabeo - ci dà l'idea di quanto eccessivo sia il nostro fisco. Al netto del peso dell'economia sommersa, sui contribuenti fedeli al fisco grava una pressione fiscale reale che sfiora il 50%, un carico che non ha eguali in Europa". Secondo una ricerca della Confesercenti, infatti, un pensionato italiano che percepisce 1.500 euro lordi al mese deve versare quantomeno quattromila euro di tasse, uno francese, inglese o spagnolo molto meno della metà. In Germania ancora meno. Per Renato Mason, segretario dell’associazione, “per ridurre strutturalmente le tasse dobbiamo in misura corrispondente tagliare la spesa pubblica improduttiva e nonostante gli effetti della spending review siano stati relativamente modesti, il carico fiscale complessivo ha iniziato a scendere”.
Il popolo delle partite Iva escluso dalla riduzione delle tasse
Tutto questo benché il governo abbia deciso nel 2015 di eliminare l'Irap dal costo del lavoro del 2015 e nel 2015 di cancellare la Tasi. Quest’anno, invece, ha provveduto alla riduzione dell’Ires che si unisce all'aumento delle deduzioni Irap e ad altre misure come l'innalzamento delle soglie per accedere al regime dei minimi e la proroga del parziale esonero contributivo a carico delle imprese che hanno assunto personale a tempo indeterminato. A rimanere fuori dalla riduzione delle tasse è ancora una volta il popolo delle partite Iva. “Ancora una volta – ha attaccato il segretario Mason - l’insensibilità della classe politica di questo Paese ha prevalso sugli interessi dei piccoli produttori. Su quel mondo di lavoratori autonomi, costituito in particolar modo da ex operai, da giovani free lance e da liberi professionisti che, inspiegabilmente, continuano a non ricevere alcuna attenzione ai loro problemi”.
Addio agli studi di settore
Un altro scottante problema che la Cgia ha affrontato in questi ultimi giorni è quello degli studi di settore che andranno in soffitta. Dopo 18 anni, in base a quanto prevede il decreto sulla manovra correttiva in discussione in Parlamento, gli studi di settore saranno sostituiti dagli indicatori di affidabilità fiscale. Le partite Iva soggette ai 193 studi di settore attivati dall'amministrazione finanziaria sono circa 3,5 milioni e oltre il 73% dei contribuenti (2,6 milioni) risulta congruo, cioè rispetta le richieste avanzate dall'Amministrazione finanziaria in materia di ricavi. Tra i 3,5 milioni di contribuenti soggetti agli studi di settore, Roma è la provincia che ne conta di più: 244.000. Subito dietro ci sono le province di Milano che annoverano il più alto numero di contribuenti sottoposti agli studi di settore: 221.480. Al terzo posto si colloca Napoli (133.237), poi Torino (129.527), Brescia (80.652), Firenze (71.295), Bologna (68.150), Bergamo (67.124), Padova (65.505) e Bari (65.461). In coda alla classifica, invece, ci sono Enna (6.642), Gorizia (6.541), Carbonia-Iglesias (4.950), Isernia (4.775), Medio Campidano (3.949) e Ogliastra (2.926).
Nonostante la maggior parte di questi contribuenti ogni anno risulti congruo, molti di loro rischiano ugualmente di subire un accertamento fiscale. Solo nel 2016, in base ai calcoli della Cgia di Mestre, sono stati poco meno di 368.500 gli accertamenti in materia di Iva, Irap e imposte dirette che hanno riguardato le imprese potenzialmente soggette agli studi di settore. "Per molti sarà la fine di un incubo anche se sarà necessario monitorare questo periodo di transizione con grande attenzione. I nuovi indicatori di affidabilità fiscale che sostituiranno gli studi di settore – spiega Zabeo - dovranno garantire una riduzione delle tasse e una maggiore semplificazione nei rapporti con il fisco. Altrimenti, questa novità servirà a poco".
Cosa ci aspetta dopo gli studi di settore
Dal 1998 al 2015 gli studi di settore hanno notevolmente accresciuto le casse dello Stato. A fronte di 49,2 miliardi di euro di maggiori ricavi ottenuti con l'adeguamento spontaneo in sede di dichiarazione dei redditi, questi si sono tradotti in 19,6 miliardi di euro di tasse in più versate all'erario. "Certo –dice Zabeo- è difficile stabilire quanti di questi soldi siano il frutto di una graduale emersione della base imponibile e quanti, invece, siano riconducibili a tasse aggiuntive che i contribuenti hanno pagato perché l'asticella dei ricavi imposta dagli studi di settore era troppo elevata. Molto probabilmente la verità sta nel mezzo. Per questo è necessario che i nuovi indicatori di affidabilità non ricalchino queste vecchie abitudini". “Per questo -prosegue Zabeo- è determinante che nella fase di gestazione di questi indicatori siano coinvolte le associazioni di categoria dei lavoratori autonomi, che meglio di chiunque altro conoscono le specificità e le caratteristiche fiscali di queste attività imprenditoriali".
Secondo il segretario Mason "chi nel prossimo futuro rispetterà le disposizioni previste dagli indici di affidabilità fiscale non dovrà più essere sottoposto ad alcuna attività accertativa". Inoltre"bisognerà limitare al massimo il numero di controversie per togliere quell'ansia da fisco che, purtroppo, continua a investire molti piccoli imprenditori". "Per questo -spiega Mason- sarà necessario introdurre un regime premiale a beneficio di coloro che sono in regola con le richieste dell'Amministrazione, così come era stato annunciato verso la seconda metà degli anni '90 in sede di presentazione degli studi di settore che, in seguito, è stato clamorosamente disatteso".
A mettere in crisi le aziende, infine, ci sono i mancati pagamenti da parte della pubblica amministrazione che ammontano a 64 miliardi di euro. La Cgia prende spunto dalla relazione del governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, e ritiene pertanto “inaccettabile che la nostra Pa, nonostante siano ormai trascorsi 2 anni dall'introduzione della fattura elettronica nelle transazioni commerciali tra quest'ultima e i fornitori, non conosca ancora adesso quanti soldi debba onorare ufficialmente ai propri fornitori".
I dubbi sullo split payment
Lo split payment, introdotto nel 2015 per contrastare l'evasione fiscale, denuncia la Cgia, ha soltanto creato altri problemi. Tale meccanismo obbliga le amministrazioni centrali dello Stato a trattenere l'Iva delle fatture ricevute e a versarla direttamente all'erario di modo tale da impedire che l'imprenditore disonesto non versi l'Iva all'erario. Mason attacca: “la nostra Pa non solo paga con un ritardo che non ha eguali nel resto d'Europa e quando lo fa non versa più l'Iva al proprio fornitore. Insomma, oltre al danno anche la beffa. Pertanto, le imprese che lavorano per lo Stato, oltre a subire tempi di pagamento spesso irragionevoli, scontano anche il mancato incasso dell'Iva che, pur rappresentando una partita di giro, consentiva alle imprese di avere maggiore liquidità per fronteggiare i pagamenti di ogni giorno”.
“Questa situazione, - conclude - associandosi alla contrazione degli impieghi bancari nei confronti delle imprese in atto dal 2011, ha peggiorato la tenuta finanziaria di moltissime aziende, soprattutto quelle di piccola dimensione”.
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