Ubi la prima popolare che diventa spa

Gli equilibri futuri nelle manovre in corso tra gli storici poteri bresciani e gli azionisti piemontesi

L'a s sembl ea di Ubi Banca, con oltre 5mila votanti, ha approvato la trasformazione in spa. È la prima delle 10 banche popolari interessate dalla legge del governo Renzi ad abbandonare la forma cooperativa. I sì sono stati 4.976, 25 i no con 31 astenuti. Un «passaggio storico» ha detto in assemblea l'ad del gruppo, Victor Massiah. L'Unione di Banche Italiane è nata nel 2007 dall'aggregazione di numerosi istituti prevalentemente del Nord; le maggiori basate in Lombardia (Brescia e Bergamo) e Piemonte. Tra le altre, Banco di Brescia, Popolare di Bergamo, Commercio e Industria, Banca Regionale Europea. Ubi ha mantenuto la forma coop attraverso un sistema di popolare integrata, retto da una governance dualistica. Il ministero dell'Economia hai espresso «grande soddisfazione per la prima conversione in spa di una delle più importanti popolari».

Ubi Banca, con il via libera arrivato ieri dall'assemblea dei soci alla trasformazione in spa, è come se avesse riavvolto in una sola giornata una pellicola lunga otto anni. Questo non tanto dal punto di vista industriale o della governance, perché l'ad Victor Massiah ha plasmato uno dei grandi gruppi più solidi del sistema nazionale e già nel 2014 aveva fatto spazio al mercato con il modello della popolare integrata; quanto da quello dei rapporti di forza tra le sue principali anime territoriali: quella bresciana e quella bergamasca.

Se nell'aprile del 2007 le grandi famiglie della Leonessa d'Italia, fedelissime a Giovanni Bazoli, pur di sottrarre Banca Lombarda dalle mire degli spagnoli del Santander, la fusero con la mutua Bpu, accettando il socialismo intrinseco al voto capitario (una testa un voto), ora hanno la leva per tornare a far sentire la loro forza. Non appena la nuova «Ubi spa» sarà realtà in Piazza Affari – il debutto è atteso entro metà dicembre - si tornerà a contare le azioni una sull'altra. E la associazione Banca lombarda e piemontese è accreditata di custodire il 10-12% di Ubi, per un valore di Borsa di 600-720 milioni. Senza contare che in primavera il gruppo dovrà aprire le urne per rinnovare consiglio di sorveglianza e di gestione. Nella composizione delle liste, per presentare le quali occorre da statuto l'1% del capitale, «si dovrà tenere conto dei mutati pesi azionari», anticipa già un manager del gruppo al Giornale . Resta l'incognita di quanto si dimostrerà coeso il blocco bresciano, composto sia da famiglie industriali come Gusalli Beretta, Folonari, Strazzera o Zaleski sia da enti religiosi, come la Congregazione delle suore ancelle della carità, l'Editrice La Scuola o la Diocesi di Milano.

A Bergamo, sebbene si parli di una possibile discesa in campo dei Pesenti, ricchi di liquidità dopo la vendita ai tedeschi di Italcementi, ad oggi non esiste invece nulla di paragonabile. Fatta eccezione per le quote detenute dalle famiglie vicine a Emilio Zanetti, per decenni il demiurgo di Ubi insieme con Bazol, dai Radici e da Giorgio Jannone, l'ex parlamentare di Forza Italia, convinto sostenitore della spa e già regista di un tentativo di ribaltone.

Una distanza di peso, quella tra Brescia e Bergamo, che diventerà ancora più evidente se andrà in porto il progetto di convertire in titoli della capogruppo le minorities nelle mani delle Fondazioni Cr Cuneo (oggi al 2,3%) e della Banca del monte di Lombardia (1,7%): tutto dipende dai valori di conferimento, ma i due enti potrebbero salire dall'attuale quattro all'10-12 per cento. E se i titoli della nuova Ubi spa si apprezzeranno in Borsa, lo scambio diventerà più agevole, visto che oggi la banca tratta a 0,7-0,8 sul valore di libro. A quel punto Brescia e le Fondazioni arriverebbero al 20% del gruppo, che per il 40% è comunque già appannaggio dei fondi di investimento, a partire da Sinchester (4,9%) e BlackRock. Chi conosce la concretezza bresciana rimarca tuttavia che poco accadrà fino a quando la procura non chiuderà l'inchiesta sul presunto patto occulto stipulato tra Bazoli e Zanetti per governare l'istituto. Un dossier giudiziario che, al di là degli esiti, comporta comunque qualche incognita.

Ubi è stata comunque la prima popolare italiana a recepire la riforma Renzi, su cui pende peraltro un ricorso al Tar, che verrà esaminato in primavera. E la multifome Unione di Banche Italiane sta metabolizzando la svolta in modo diverso: se i quadri direttivi di Brescia e Piemonte sono comodi nei nuovi abiti della spa, la coop di Bergamo è invece ferita, soprattutto tra i soci pensionati.

Due le associazioni principali: gli Amici di Ubi Banca di Graziano Caldiani (ex direttore generale dell'istituto) e Ubi Banca Popolare di Antonio Deleuse Bonomi, che ora teme «vada perduto il legame con il territorio» e bolla come «inopportuna» l'accelerazione sul cambio di statuto.

Non per nulla, nella prima linea di Ubi si nota la force tranquille con cui Massiah governa in attesa del vero salto dimensionale: in assemblea ha preso la parola il leader della Fabi, Lando Sileoni per appoggiare il cambiamento, ma scongiurare altri tagli al personale. Gli occhi sono puntati sul Banco Popolare, ma altri pensano a un salvataggio chirurgico che risolverebbe anche un problema a Bankitalia. E i primi indizi portano a Etruria o Cariferrara.

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