L'America sta cominciando a pagare dazio alla lotta contro l'inflazione. Nel giorno in cui l'indice Pce, il preferito dalla Federal Reserve per calibrare la politica monetaria, ha moderato la propria crescita al 6% in ottobre (dal 6,3% di settembre), segnali plumbei arrivano dal fronte industriale. Dopo oltre due anni di espansione continua, l'Ism manifatturiero è sceso il mese scorso sotto quota 50 (a 49 punti), la linea di demarcazione fra crescita e recessione; stessa sorte per l'S&P Global US Manufacturing PMI, calato a quota 47,7. Le ragioni di questo duplice scivolamento in territorio negativo sono ben riassunte da Chris Williamson, capo economista di S&P Global Market Intelligence: «Una combinazione di aumento del costo della vita, tassi di interesse più elevati e crescenti timori di recessione hanno portato a un crollo della domanda di beni sia nel mercato interno che all'estero». Risultato: le aziende hanno cominciato a tagliare sia l'acquisto di materie prime, sia la produzione, a un ritmo che non si vedeva dai tempi del lockdown. Senza peraltro riuscire a parere il colpo, poiché i magazzini sono zeppi di merce invenduta. E nei prossimi mesi la situazione potrebbe peggiorare, poiché a causa del carovita le famiglie stanno sempre più intaccando i risparmi, scesi ad appena il 2,3% del reddito disponibile e al livello più basso dal luglio 2005. Così, «il mood degli affari rimane tra i più cupi visti nell'ultimo decennio», chiosa Williamson.
Si tratta di uno scenario complessivo che proietta ombre sinistre sull'ultimo trimestre dell'anno e non depone a favore del mantenimento di un trend di crescita simile al terzo quarter (+2,9% il Pil), quello che ha permesso agli Usa di uscire dalla recessione tecnica. È per questo motivo che il dato di domani sul mercato del lavoro (in agenda, tasso di disoccupazione e posti di lavoro creati), carico di implicazioni sulla politica monetaria e sulla traiettoria del ciclo economico, è particolarmente atteso dai mercati, preoccupati ieri proprio dall'andamento del settore manifatturiero. Dopo aver recuperato il 20% dai minimi di fine settembre e aver reagito martedì scorso in modo quasi euforico alla notizia che la Fed potrebbe limitare a mezzo punto il rialzo del costo del denaro in dicembre, Wall Street cedeva l'1% a un'ora dalla chiusura, mentre l'Europa ha limato i guadagni accumulati durante la seduta (+0,3% Milano, +0,7% lo Stoxx600). Le aumentate probabilità di una Fed meno falco hanno inoltre inciso sul dollaro, ai minimi da quattro mesi sull'euro. Un parziale sollievo per i Paesi emergenti, del cui rischio di default provocato dall'apprezzamento del biglietto verde non sembra curarsi il Fondo monetario internazionale. Anzi. In un'intervista all'Ap, la numero uno dell'Fmi, Kristalina Georgieva, ha sostenuto che la banca centrale Usa deve continuare ad alzare i tassi perché «lo deve all'economia statunitense e all'economia mondiale, perché ciò che accade negli Stati Uniti se l'inflazione non va sotto controllo può avere ripercussioni anche sul resto del mondo». Nel vuoto cade quindi il monito del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite, secondo cui i Pvs sono sull'orlo di una crisi significativa proprio a causa delle politiche finanziarie e monetarie delle nazioni sviluppate come gli Stati Uniti.
Di sicuro, il capo di Eccles Building Jerome Powell non deluderà le aspettative del Fondo.
Prima di mettere sotto controllo la crescita dei prezzi, ha ribadito l'altroieri, «c'è ancora molto lavoro da fare». Il presidente Usa, Joe Biden, è d'accordo: «Ci vorrà del tempo per riportare l'inflazione alla normalità, e potrebbero esserci battute d'arresto lungo la strada».
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