Edoardo Albinati, eutanasia di un amore filiale

«Ah sì, disse lui, e vidi nel suo sguardo qualcosa che somigliava al brillio di un chiavistello che si chiude a scatto». Non era un uomo semplice, il padre di Edoardo Albinati. Ingegnere di successo, bastava notasse negli altri la minima posa perché si asserragliasse dietro la sua «maschera». Di fronte a questa chiusura ecco che allora - «tutto, si sa, la morte dissigilla», scriveva Vittorio Sereni - l’evento più indesiderabile, la condanna di un male che non dà scampo, lascia al figlio almeno la speranza di comprendere che cosa celino le abitudini di un uomo energico, capace di «battere alla segretaria decine di lettere piene di solleciti, ingiunzioni, rettifiche, creando un immenso carteggio col mondo esterno che gestiva in perfetta autocrazia, solitario e onnipotente tra le pareti rivestite di sughero del suo ufficio come un despota nella sala dei mappamondi». Voglia di smascheramento legittima ed eminentemente filiale, perché in letteratura ogni padre, da Kafka a Svevo, desidera nascondersi solo per meglio incatenare la sua discendenza ad un’eterna minorità. Eppure, anche stavolta, la partita prende una piega imprevista.
Da paziente, l’ingegnere non muta atteggiamento. Quando un medico gli comunica la terribile diagnosi, reagisce con «una specie di annoiato disappunto, come se gli avessero portato via la macchina col carroattrezzi. E poi «gli dava fastidio il pathos». Pathos, si badi, che il lettore invece non può schivare: le pagine di Vita e morte di un ingegnere (Mondadori, pagg. 150, euro 18) raccontano il disfacimento del corpo con tale coraggio da costringere spesso a posare il volume per riprendere fiato.
Edoardo Albinati è scrittore troppo intelligente per servirsi della morte del padre allo scopo di formulare qualche frase sulla condizione umana. «Cercare pensieri profondi sulla morte è una cosa oscena», la «lugubre lagna» delle mummie di Federico Ruysch è preferibile ai rovelli di Ivan Il’ic. Ma, la malattia, una cosa la insegna: a liberarsi del «mito della profondità». Quando l’ingegnere morirà «in pochi minuti, con la tazza di tè bollente in mano», si scoprirà che non c’era nessuna maschera.


«Mia madre sperava che la morte portasse a galla i tesori sepolti nell’anima di mio padre, senza capire che il tesoro era appunto quell’acqua limpida, in fondo alla cui trasparenza non c’era niente che non fosse da sempre visibile ad occhio nudo».

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