Emanuel Carnevali. Il poeta Peter Pan che stregò gli Usa

Da Pound a Faulkner: l'America anni Venti impazzì per il giovane e talentuoso italiano

Emanuel Carnevali. Il poeta Peter Pan che stregò gli Usa

Al giornalista del Resto del Carlino sembrava «un uomo come tanti, un uomo della folla». Da Bologna ci vogliono meno di trenta chilometri: Bazzano è un municipio che dipende da Valsamoggia; conta, attualmente, meno di settemila abitanti. Lì il poeta che aveva ripudiato la letteratura italiana, Emanuel Carnevali nome che di per sé sottende il destino di un Emmanuele carnevalesco, di un salvatore al contrario aveva il suo reclusorio. Il giornalista scrisse di una camera «austera come una cella, disordinata come una soffitta», in affitto presso la Trattoria di Porta Castello, di un poeta dallo «sguardo franco e acceso, che mi scava dentro».

Era il 1934, Carnevali era rientrato in Italia da dodici anni, odiava Bazzano «Non fui mai felice ed adesso lo sono sempre meno... ebbi sempre la speranza di diventar scrittore, benché questa speranza fosse assai incerta e non mai espressa», scrive a Carlo Linati , dove l'odiato padre era commissario prefettizio. Alcuni amici americani, ogni tanto, gli mandavano del denaro che gli permetteva di passarsela un po' meglio. Ezra Pound, ogni tanto, andava a trovarlo: una volta gli aveva regalato una radio. Nel 1932, Ez aveva inserito alcune poesie di Carnevali tra quelle di Thomas S. Eliot, James Joyce, Marianne Moore, Hemingway e William Carlos Williams in Profile, antologia stampata da Scheiwiller che radunava i poeti modernisti più rivoluzionari dell'epoca. Il libro, tirato in 250 copie numerate, è una chicca per bibliomani. Tra le poesie di Emanuel Carnevali preferisco il poemetto Neuriade, pubblicato su Poetry nel dicembre del 1921. Il testo va letto in originale, nell'inglese monolitico, con gli archi e le frecce l'Hudson che si tramuta in Orinoco di Carnevali: «For a year his desperate hands beat the darkness. Then out of their rhythm a monster was created».

Di Poetry, tra l'altro, la più autorevole rivista di poesia degli Stati Uniti, Carnevali fu, rocambolescamente, direttore. Era il 1919 e un gruppo di scrittori si diede da fare per trovare lavoro a quell'italiano dal genio a forma di stella cometa. Nato a Firenze, testa calda e cuore oceanico, Emanuel Carnevali era partito, come tanti, verso il nuovo mondo, senza sapere bene perché, con lo scopo di levarsi di torno dalla palude italica. È il 1914, ha diciassette anni, impara la lingua leggendo i cartelloni pubblicitari; fa il lavapiatti, il garzone, lo spalatore di neve a Brooklyn. La miseria è una stimmate, lo convince di essere un redivivo Rimbaud, di cui incorpora il monito e l'enigma: «Raggiungere la libertà, scrivere poesie perfette, sentire perfettamente, amare perfettamente, vivere».

Nel 1917, grazie a Louis Grudin, francese, aspirante artista, Carnevali conosce il gotha degli scrittori del tempo. Si avvicina a Waldo Frank, che lo reputa «un uomo di intelletto vero, di profondo potere spirituale»; esordisce su Poetry con proclama onnipotente: «Voglio diventare un poeta americano perché, nella mia mente, ho ripudiato i modelli italiani di buona letteratura. Non mi piace Carducci, ancor meno D'Annunzio Credo nel verso libero. Mi sforzo di non essere un imitatore».

Per un periodo, Carnevali diventa l'idolo dei nuovi poeti d'America che vedono in lui l'Orfeo straccione, il poeta depurato da ogni spuria scolarizzazione, voce genuina giunta dal sottosuolo, il mozzo di Dante, un Whitman apolide e senza speranza. William Carlos Williams gli dedica un inno, Gloria!: «Emanuel Carnevali, il poeta nero, l'uomo vuoto, la New York che non esiste Io celebro il tuo arrivo Gesù, Gesù, salva Carnevali per me». Sherwood Anderson, il maestro di Hemingway e di Faulkner, ricorda «il mio poeta italiano dai denti bianchi e forti», il «giovanotto ben fatto, dalla pelle olivastra, dai folti capelli, il tipo d'uomo che piace alle donne». A Carnevali sposatosi, diciannovenne, in America, con Emilia Valenza, giovane piemontese emigrata , piuttosto, piacevano le donne. Per un po' andò dietro a Edna St. Vincent Millay, la poetessa del momento: avvenente, ricca, diversa. Era propenso al fallimento, agli amori rovinosi, alla rude scaltrezza di chi è sempre in debito, per sempre ingrato. Si ammalò presto perché di stenti vive, autenticamente, il poeta. «I sei mesi della sua direzione risultarono i meno proficui nella storia di Poetry e io mi sentii immensamente sollevata quand'egli lasciò l'ufficio e diede le dimissioni in vista di una misteriosa offerta da New York», taglia corto Harriet Monroe.

Nel 1925, a Parigi, presso la Contact Editions di Robert McAlmon che pubblicava Hemingway e Gertrude Stein, Djuna Barnes e Ford Madox Ford esce A Hurried Man, l'unico libro di Carnevali pubblicato in vita. Quelle prose, di sifilitica bellezza, testi tesi sempre sull'orlo dell'addio e della rivolta, sono ora riproposti, insieme all'autobiografia lunatica, leggendaria, Il primo Dio (tradotta da Maria Pia Carnevali e pubblicata in origine da Adelphi nel 1978), in L'ultimo maledetto (Edizioni readerforblind, pagg. 360, euro 17; per sviscerare la vita di Carnevali è però necessaria l'edizione di Racconti di un uomo che ha fretta curata da Gabriel Cacho Millet per Fazi nel 2005). Il poeta di esasperato candore, dal talento geyser, dà la vita per l'opera, inibendo l'ambizione nell'abominio di sé: «Ora credevo fermamente di essere l'Unico Dio. Ma nessun dio fu mai più umile di me, nessun dio fece mai sbagli peggiori, nessun dio fu mai così brutto come me».

Intorno al poeta italiano che diventò il Peter Pan dei letterati americani, nacque un breve culto, spontaneo, catacombale, sommario. Carnevali morì nel gennaio del 1942, nella clinica per malattie nervose e mentali dell'Università di Bologna, strozzato da un pezzo di pane.

Gravemente ammalato, non riusciva più a scrivere; l'ultima lettera, dettata a un amico, è rivolta a Ezra Pound, con cui aveva litigato: «Tutti mi hanno lasciato... Io sono un buon amico. Ma sono anche un valido nemico. Tu sai che se voglio ti faccio cacciare dall'Italia... Facciamo la pace, va là, e mandami di nuovo le duecento lire mensili». Ad Harlem, nei giorni americani, passeggiava, povero di tutto, all'alba, sfogliando il suo taccuino, sussurrando: «Nessuno mi vede, nessuno si meraviglia di me».

Al giornalista del Carlino che era andato a intervistarlo si chiamava Ferdinando Palmieri disse che gli americani «non sono buoni», che «la lingua è una creatura, sangue, nervi, muscoli» e che non conosceva l'italiano. Disse proprio così, quel grande, folle poeta italiano: «Non conosco l'italiano».

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