Con una economia che cresce al ritmo cinese, una moneta stabile, un'inflazione frenata e un prestigio personale consolidato internazionalmente, il successo nelle elezioni di oggi, del premier turco Erdogan, acclamato come eroe degli arabi per la sua posizione anti israeliana è assicurato. Come certo è il fatto che il partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp) resterà alla guida del governo nella prossima legislazione. La sola incognita è se l'Akp riuscirà a ottenere quei 330 seggi su 550 al parlamento unicamerale di Ankara permettendo a Erdogan di cambiare la Costituzione, eliminare il ruolo dei militari come «custodi» della Repubblica laica creata da Atatürk assicurandosi la propria elezione a presidente della Repubblica (di tipo francese) nelle elezioni del 2014.
I due soli partiti di opposizione capaci di superare con certezza lo sbarramento del 10% per entrare al Parlamento sono il Partito repubblicano del popolo (Chp) in forte risalita e il partito nazionalista (Mhp) scosso da scandali. Forse riusciranno a bloccare la corsa di Erdogan alla magistratura suprema impedendogli di ottenere la maggioranza assoluta. Il che non impedirà all'attuale e futuro premier di restare alla guida di una nazione giovane, di 80 milioni di musulmani, che intende diventare l'erede dello scomparso ma mai dimenticato glorioso impero ottomano.
Una possibilità che è più vicina alla realizzazione di quanto lo sia l'entrata della Turchia in Europa (per via del veto francese e cipriota) ma per due ragioni che non dipendono dalla Turchia: la fine del mito nazionale arabo e l'eclissi dell'influenza americana nella regione.
Il mito nazionale arabo frutto dell'imperialismo romantico orientalista britannico non si è mai trasformato in realtà nonostante la creazione di quattro stati così detti nazionali arabi sul territorio del Levante ottomano e gli sforzi di Nasser di dar loro una identità politica comune attraverso il panarabismo.
Era andare contro la natura stessa degli arabi perché come affermava Ibn Khaldun, il grande pensatore politico del 15esimo secolo, gli arabi - padri non figli del deserto - non hanno né il senso dello stato o della nazione ma solo quello della tribù. Una forza identitaria, una fonte di lealtà che fa prevalere le differenze sugli interessi comuni. Per questo lo stato arabo di Maometto e dei primi 4 Califfi si è rapidamente sfaldato nelle lotte interne, incapace di resistere all'espansionismo degli imperi islamici «periferici» - ottomano e persiano - e in seguito al colonialismo europeo anti turco. Gli stati arabi nati dallo sfaldamento dell'impero ottomano sono così rimasti, a eccezione dell'Egitto (con buona pace degli arabisti europei e americani), degli stati nazionali senza identità comune, all'interno di frontiere tracciate da Londra e Parigi come la «rivolta araba» sta dimostrando.
In comune hanno l'odio verso Israele che il presidente turco ha fatto suo in nome della solidarietà coi palestinesi.
Il «modello turco» e l'estendersi della sua influenza politica, economica e religiosa «moderata» sunnita sul Medio Oriente è stato favorito dall'eclissi della potenza americana nella regione. Un'America che dopo aver liberato a sue spese l'Iran dal suo più pericoloso nemico - l'Irak - e abbandonato due alleati - lo Shah dell'Iran, prima, e il presidente Mubarak poi, è restata ora legata a due altri paesi sempre più problematici per Washington: Israele e l'Arabia saudita.
Quale sarà il corso degli eventi per questi due paesi così differenti nessuno può dire. Il Medio Oriente dipende molto più dalla capacità di sopravvivenza della monarchia saudita che dalle rivoluzioni nei paesi arabi. Quanto a Israele, c'é qualcosa nei suoi confronti con il disegno neo imperiale turco e persiano che fa pensare a Cipro veneziana rimasta ultimo ostacolo alla marcia islamica su Vienna dopo la caduta di Costantinopoli.
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