GLI ESORCISMI DELL’UNIONE

L’Italia è avvolta da un clima un po' surreale. Si è dissolta almeno per il momento la «guerra civile strisciante» che durava dal 2001. La rivincita del centrosinistra ha consumato solo un piccolo atto simbolico, la festa della notte di lunedì. Gli elettori dell'Unione non riescono a capire il risultato uscito dalle urne, sanno di aver espresso una maggioranza parlamentare, ma hanno scoperto di non interpretare «l'interesse generale», non si capacitano del pareggio. Hanno creduto allo slogan che prometteva «domani è un altro giorno», ma stentano a riconoscervisi. Era stata annunciata una liberazione, un cambio di regime, invece predomina l'incertezza.
Si può capirlo. I vincitori non sono vincitori e gli sconfitti non sono sconfitti. C'è la consapevolezza di un risultato che non è aperto solo nella forma, ma lo è nella sostanza. Ne ha accennato ieri Massimo D'Alema, il solo fra i tanti esponenti ulivisti che hanno affidato alla stampa le loro confessioni, quando si è riferito all'impossibilità di farsi ascoltare da «quell'elettorato moderato e di opinione che non è spinto a votare la sinistra né per ragioni ideali né per interessi sociali» e che «ha deciso comunque di non fidarsi di noi». Una battuta che suona come l'ammissione di rappresentare solo la metà del Paese e che si distingue dalla disinvolta facilità con cui altri hanno promesso di «governare a nome di tutti».
Ma anche sul piano più strettamente politico, il clima è un po' surreale. Non c'è solo il fatto che l'agenda è dettata ancora da Berlusconi. C'è di più. C'è l'incapacità della leadership unionista di parlare al presente. Romano Prodi sa solo ripetere che «governerò per cinque anni» magari per aggiungere che «sceglierò io» i ministri. Anche Francesco Rutelli usa solo il futuro: sulla presidenza del Senato «deciderà il centrosinistra», sulla composizione del governo «si discuterà chi farà che cosa», sulle priorità «tutti dovranno essere sintonizzati sull'obiettivo dei primi sei mesi» e così via. Non può non colpire il divario fra la promessa spavalda di abrogare in quattro e quattr'otto il quinquennio della Casa delle libertà e questa partenza lenta, con il motore al minimo dei giri, con l'assenza di ogni decisione, con la rincorsa fra i capi dell'Unione ad affidarsi a due esorcismi.
Il primo esorcismo è costituito dal Partito democratico, cioè qualcosa che non c'è, che le urne non hanno premiato, se la sua prefigurazione è la lista dell'Ulivo, e che viene indicato come la soluzione di tutti i problemi che Quercia e Margherita oggi non sanno affrontare. Il secondo esorcismo è rappresentato dal consegnarsi ai tempi dettati dal Quirinale e al ripararvisi dietro per tutto, dalla data dell'incarico alla rivendicazione dell'autosufficienza della maggioranza parlamentare, alla difficoltà di scegliere i presidenti di Senato e Camera, al silenzio sulle scelte a proposito dell'elezione presidenziale, alla fuga dal problema dell'esiguità del vantaggio a Palazzo Madama. L'Unione si è proposta come un «blocco d'ordine» capace di rappresentare tutti i grandi poteri e di pacificare l'Italia, ma all'inizio della sua prova non riesce a compiere una sola scelta.

Continua a dare il meglio di sé dicendo i suoi no a Berlusconi, cioè restando opposizione e tornando ad agitare, come ha fatto ancora ieri Prodi, la vendetta sul conflitto di interessi, contrapponendola indirettamente alla richiesta della verifica sulle schede. Non esprime altro, stupita di essersi trovata di fronte la Casa delle libertà ancora in piedi.

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