Dal boom alla rabbia sociale Ora il Brasile non sogna più

Cortei, auto incendiate e scontri contro l’aumento del prezzo dei trasporti Ma la vera molla èl’economia che ha smesso di volare e la crisi del ceto medio

Dal boom alla rabbia sociale Ora il Brasile non sogna più

È il miracolo di cartone, che non regge sotto al peso del progresso, all'euforia del crescere, dello sviluppo che a singhiozzi rallenta e si intoppa, che sul più bello delude e scoraggia. Decine di migliaia di brasiliani sono scesi in piazza. Non succedeva da vent'anni che il Paese fosse così unito sulle barricate. Manifestano a San Paolo, a Brasilia, a Rio de Janeiro, Belo Horizonte, Fortaleza, El Salvador. Si stima siano state oltre 250.000 le persone scese in piazza. Si ribellano contro l'aumento dei prezzi dei trasporti pubblici, contro i miliardi di dollari statali spesi per i Mondiali di calcio del 2014 e per la Coppa delle Confederazioni. Centinaia di manifestanti sono riusciti a montare sul tetto del Parlamento a Brasilia. L'ondata di rabbia, accovacciata per mesi, ora è esplosa e ha invaso le strade brasiliane. E fa paura. Atti di vandalismo sono stati denunciati a Rio e Porto Alegre, la polizia ha usato gas lacrimogeni, spray al pepe e proiettili di gomma per disperdere i gruppi con il volto coperto impegnati in azioni vandaliche vicine alla sede parlamentare di Rio. Dilma Rousseff prende tempo e getta acqua sul fuoco. «Queste voci della strada devono essere ascoltate» ha detto. Sa che il momento è delicato, i riflettori del mondo sono puntati sul grande Paese dallo sviluppo economico, e tutti guardano lei, qualcuno aspettando che faccia la mossa sbagliata. Lula aveva saputo iniettare orgoglio e fiducia, gli uomini d'affari lo sostenevano perché garantiva loro buoni profitti, le classi popolari ne avevano fatto un idolo e lui cercava di fare tutti contenti. Dilma appare sola, sabato scorso nello stadio della capitale durante la cerimonia inaugurale della Confederations Cup è stata sonoramente fischiata. Un misto di scelte politiche fuori tempo e di investimenti mancati in alcuni settori chiave ha inaridito entrambe le fonti della crescita fin da quando è diventata presidente dal primo gennaio 2011. Adesso la Banca mondiale parla di «growth trap» o meglio, trappola del reddito medio, il fenomeno per cui un Paese in via di sviluppo cresce moltissimo finché non arriva a un certo livello, oltre il quale rallenta e finisce per non fare mai il salto verso la piena maturità economica.

La protesta è iniziata la scorsa settimana, innescata dall'aumento del prezzo del biglietto dell'autobus a San Paolo, prima di prendere di mira anche la spesa, 15 miliardi di dollari, per l'organizzazione dei Mondiali del prossimo anno; una cifra enorme in un Paese in cui persistono forti disuguaglianze sociali e i servizi sociali sono carenti. «Non siamo qui per 20 centesimi di aumento del biglietto del bus, questa è la goccia che ha fatto traboccare il vaso. La Coppa è per chi viene da fuori, per i brasiliani non c'è nulla», ha detto una manifestante ai giornalisti. A iniziare le proteste sono stati prima gli indigeni e i contadini – la riforma agraria e la protezione dell'Amazzonia dalle multinazionali sono rimaste grandi promesse incompiute – e poi sono arrivati i settori dei ceti medio-bassi i cui salari sempre più precari vengono mangiati da un'inflazione galoppante.

Già, ma che fine ha fatto il grande sogno, il miracolo del Brasile? Oggi sembra sempre più un gigante che aspetta un futuro che non arriva mai. C'è la bolla finanziaria, c'è una moneta che, guidata verso l'alto alimenta il rischio di recessione. E c'è, soprattutto, la gran frenata della crescita che ripropone gli incubi del passato quando il paese procedeva a singhiozzo con improvvisi balzi in avanti seguiti da altrettanto rapide cadute all'indietro. È un gigante, il Brasile; è sempre «il paese del futuro» come dicono i suoi abitanti, che aspetta di vivere il suo grande momento che resta un'eterna promessa. È un colosso, ma dai piedi d'argilla, con una moltiplicazione impressionante della classe media che però deve fare i conti con la debolezza delle infrastrutture, con le rigidità sociali, con un mercato del lavoro anchilosato.

Già un anno fa, i più attenti osservatori avevano notato che «il Brasile non è più la macchina dello sviluppo di un tempo - come ha scritto Forbes - I giorni della moneta facile e veloce sono andati». Le ultime cifre mostrano un prodotto lordo che cresce solo dell'1,9%. Troppo poco.

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