Clooney si fa arrestare per spot: sorrisi in manette contro il Sudan

Clooney si fa arrestare per spot: sorrisi in manette contro il Sudan

Sorride George Clooney. Nonostante le manette ai polsi. Perché la battaglia è seria, ma la trovata pubblicitaria. Non c’è film da promuovere. Ma ci sono riflettori da accendere su un’Africa dimenticata. E chi meglio di lui - ormai più attivista che attore, star colta prestata alle battaglie umanitarie - può farlo infilandosi nelle pieghe delle rigidissime norme sull’ordine pubblico made in Usa? Così Clooney ha cercato la «photo opportunity» e l’ha trovata. Protestava davanti all’ambasciata del Sudan a Washington, contro i «crimini di guerra» perpetrati dal governo di Omar Al-Bashir, che da mesi bombarda le popolazioni al confine con il neonato Sud Sudan. Per tre volte gli è stato intimato di non superare il cordone di polizia. Per quattro lo ha fatto. Il risultato sono decine di scatti fotografici che rimbalzano sui siti di informazione-spettacolo-gossip-impegno-crisi umanitarie-eccidi-genocidi- di tutto il mondo. Missione compiuta in sole tre ore. Con la grande soddisfazione di aver coinvolto il suo adorato padre Nick, 78 anni, ex anchorman ed ex candidato (bocciato) al Congresso.
Clooney ama le telecamere e le sa usare. Guarda le giornaliste americane dritto negli occhi come se stesse per invitarle a cena ed è in grado di far passare messaggi e denunce che neanche i network di maggiore audience riescono a mandare in onda, tanto complicati sono i temi, lontani i Paesi in questione, raccapriccianti le immagini. Come un Gandhi dei nostri giorni, ma con la barba incolta e l’abito impeccabile, usa l’arma della «disobbedienza civile» o della «resistenza passiva», per costringere i poliziotti a far scattare le manette e costringere il mondo ad aprire gli occhi su un’emergenza dimenticata. Perché di mezzo, in questa battaglia, ci sono bombe che cadono sulla testa di popolazioni inermi.
«Pulizia etnica», la chiama lui nel video che ha diffuso qualche giorno fa, regista e protagonista di una storia finalmente ma brutalmente vera. Poche ore prima della cena di gala in cui sedeva al fianco di Michelle Obama, poche ore prima di incontrare il presidente americano, di cui è amico e grande sostenitore, e chiedergli aiuto per fermare la strage, Clooney ha voluto mostrare al mondo, grazie a un video di cui è regista e protagonista, come è entrato illegalmente nel Paese con la sua telecamera. E l’orrore che ha visto. È la cronaca, bellezza, in grado di realizzare i sogni dell’attore più impegnato e più narciso del momento. Così, in quattro minuti, George ha raccontato al mondo come al confine col neonato Sud Sudan, sulle montagne Nuba, il governo di Khartoum già autore del genocidio in Darfur, sta sterminando donne e bambini, che dopo l’indipendenza del Sud, sono rimasti a vivere in un Paese che non li vuole e li perseguita per il colore della loro pelle - sono neri - e per la loro religione: sono cattolici in uno Stato a maggioranza musulmana. Un regime che li costringe a rifugiarsi nelle grotte per scampare alle bombe e a smettere di coltivare le loro terre, lasciando che muoiano di fame in centinaia di migliaia: «Bisogna agire ora o si rischia il disastro», dice la star. Consapevole dei complicati intrecci geopolitici sullo sfondo: la Cina fornisce le bombe al Sudan, dal quale ottiene il 6% dei suoi rifornimenti petroliferi. Spaccati di realpolitik che Clooney è capace di denunciare come un Kissinger moderno ma con la capacità di comunicare - e di ironizzare per smorzare la tensione - come un vero matador della comunicazione, consapevole della sua influenza e del suo fascino.


La star impegnata abituata a dire la sua su matrimoni gay, diseguaglianze sociali, tasse e fine vita, aveva previsto tutto e lo ammette senza problemi. Ma stavolta il copione è la storia. E sarà che si è montato la testa o che l’impresa è più avvincente di mille pellicole, Clooney ha deciso che vuole mettere mano a qualche triste finale.

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