Da Mogadiscio
«É qui?». Il maresciallo Giorgio Maiuccaro punta l'antenna della radio sul vetro incrostato di fango. Albert, l'autista in divisa ugandese serra lo sterzo, annuisce con quel sorriso scintillante sul volto di pece. Il «mamba» uno scatolone d'acciaio con una mitraglia appesa altetto arranca sull'asfalto, sobbalza tra le voragini, rallenta in prossimità della muraglia ferita. Oltre il finestrino blindato ci sono una parete di cemento rabberciata alla meglio, un cancello masticato dalle schegge, un nugolo di guardie armate dagli sguardi affannati. «Cavolo che botta» gli occhi del maresciallo si soffermano sul disastro. É stato dieci giorni fa, il 19 giugno: «Dalla nostra base saranno 600, 800 metri e non è stata una bazzecola. Gli shebab hanno fatto saltare il cancello con un autobomba, hanno ucciso le guardie e sono entrati. I militari africani dell'Unisom hanno combattuto, ma per aver la meglio sugli shebab c'hanno messo due ore. E alla fine qui c'erano 22 cadaveri».
Per i trenta paracadutisti del 186mo reggimento Folgore arrivati a Mogadiscio 20 anni dopo la battaglia di Check Point Pasta quell'attentato è un beffardo benvenuto. Il buongiorno d'una guerra insidiosa e spietata. Come quella che il 2 luglio 1993 cancellò la vita di tre nostri soldati. Con la micidiale zampata del 19 giugno gli shebab, i miliziani al qaidisti, fanno capire quanto sia precaria la pace abbozzata dopo la loro cacciata da Mogadiscio di due anni fa. Certo la Somalia ora ha un governo provvisorio. Nella sua capitale sbarcano delegazioni di tutto il mondo. Turchia, Qatar, Norvegia, Inghilterra ed altri fanno a gara nel contendersi il suo futuro e le sue risorse. Ma dentro questo blindato usato dai nostri parà per muoversi con i soldati ugandesi non si respira il profumo di una pace imminente, non s'intravvede lo scintillio di un futuro dorato.
All'Arco di Trionfo Popolare, vestigia italiana sopravvissuta a decenni di battaglie una guardia somala in berretto e camicia bianca dirige il caos a colpi di fischietto. Una vacca si fa largo tra auto ed asinelli parcheggiati davanti ai negozi di telefonini e computer. In quel serpente di fango, buche e asfalto nessuno riconoscerebbe l'infiorata via trionfale su cui nel 1985 Bettino Craxi saliva a villa Somalia al fianco del dittatore Siad Barre. Tra le voragini di mura incancrenite s'avviluppano grovigli di mondezza ed erbacce, si piegano le rovine di palazzine diroccate attraversate branchi di bimbi randagi. Il maresciallo Giorgio Maiuccaro e i trenta della 14a compagnia sanno di non potersi aspettare niente di meglio. «Siamo una forza d'intervento rapido, dobbiamo garantire la sicurezza di chi parteciperà a questa missione e lavoriamo con gli ugandesi perché con loro porteremo soccorso a chi si troverà in difficoltà». Il mandante della missione è stampigliato sulle mostrine con il simbolo dell'Unione Europea. Una missione ancora all'inizio, progettata per formare, come in Afghanistan, le forze di sicurezza somale. Una missione importante per l'Italia chiamata a rimettere piede in un ex colonia dove l'Inghilterra ha già riaperto l'ambasciata e dove tante, troppe nazioni sgomitano per avere un ruolo. Noi, per ora, abbiamo dalla nostra solo il ricordo. «Ad ogni passo fuori dalla base - racconta il tenente colonnello Tiziano Viero, vice comandante della missione - i somali mi si stringono attorno, mi chiedono perché c'avete messo tanto, perché c'avete abbandonato». In quella nostalgia velata di risentimento, in quei «perché ci avete abbandonato?» c'è la difficoltà del nostro ritorno.
Un ritorno intriso a volte di ferite sanguinanti. Una attraversa il cuore e la mente del colonnello Gerolamo De Masi, chiamato a guidare la missione: «Sa vent'anni fa, quella mattina del 2 luglio ero un giovane capitano» abbozza il comandante. Davanti a lui sulla spiaggia tra l'oceano e il perimetro della base i blindati Lince della Folgore manovrano assieme ai Mamba ugandesi. Tra le dune circondate da immondizia e filo spinato i parà spiegano come disporsi in caso d'attacco, come riportare in base un mezzo danneggiato, come prestar soccorso ad un ferito. Ognuno di loro è già passato per l'Afghanistan, il Libano e il Kosovo. Quasi tutti si sono ritrovati al centro di combattimenti o attacchi. La battaglia di Check Point Pasta invece l'hanno solo sentita raccontare: «Ce ne parlano i più anziani, la conosciamo dai loro ricordi» ammette il sergente Salvatore Scaffidi. Per il comandante Gerolamo De Masi non è così. Lui la mattina del due luglio 1993 quando il riverbero dell'aurora si confonde con i traccianti dei kalashnikov è proprio lì nello slargo di Check Point Pasta. Con lui ci sono il caos degli ordini urlati e contraddetti, il sibilare dei proiettili, l'adrenalina nella gola, le immagini al rallentatore. Fino alla vampata di quel razzo piantato tra il cingolo e la carcassa del blindato italiano, la scheggia infilata nell'avambraccio, il sangue che cola. «Non riuscivo a stringere il fucile, non riuscivo più a sparare, e davanti a me Pasquale Baccaro si dissanguava prigioniero del blindato. Per tutti questi anni ho conservato l'immagine dei suoi due compagni feriti, tirati fuori dai rottami e portati via da un carro Centauro. Sono passati vent'anni e questa missione è tutt'altra cosa, ma il ricordo non è svanito.
Il due luglio non potremo deporre una corona di fiori a Check Point Pasta perché le condizioni di sicurezza non lo consentono. Ma li ricorderemo dentro la base. E loro saranno di nuovo al nostro fianco. Di nuovo con noi qui a Mogadiscio».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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