Uno ha tiranneggiato per trent'anni, l'altro si prepara a farlo dopo soli quattro mesi di presidenza. Ma anche tra despoti e aspiranti tali le differenze contano. La più evidente emerge martedì sera quando le televisioni di tutto il mondo raccontano la fuga di Mohammed Morsi dal retro di un palazzo presidenziale circondato dai dimostranti. Tra quella ritirata da operetta e il dramma di un Hosni Mubarak rimasto ad affrontare il proprio destino anche quando il paese chiedeva la sua testa c'è la differenza tra due uomini e due regimi. E se il buongiorno si vede dal mattino come non paragonare l'umiliante ritirata dell'altra sera con le immagini del lontano 6 ottobre 1981 quando Hosni Mubarak - seduto alla destra di un Sadat appena assassinato - si fa largo tra le poltrone insanguinate per cercare il corpo del proprio presidente. Le differenze vere le fanno, però le prospettive da brivido ispirate dai primi 120 giorni di Morsi e i 30 anni di relativa stabilità regalati alla nazione dal Faraone Mubarak. In quel fatidico ottobre del 1981 l'Egitto è una pentola a pressione pronta ad esplodere sotto la pressione del fanatismo integralista. Eppure Mubarak non arretra d'un passo, difende l'eredità del suo predecessore, garantisce la pace con Israele, sconfigge il terrorismo e costringe all'esilio nemici del calibro di Ayman Al Zawahiri, attuale capo di Al Qaida.
Trent'anni dopo l'Egitto e i suoi (ex?) alleati occidentali fanno i conti con un presidente che definire integralista è eufemisticamente riduttivo. Tra il 2001 e il 2005, quando siede in Parlamento tra le fila dei Fratelli Musulmani, Morsi non perde occasione per spiegare che l'11 settembre non è stato un attentato di Al Qaida, ma un complotto americano per dichiarar guerra ai musulmani. Nella recente campagna elettorale non esita a perorare la liberazione di Omar Abdel Rahman, lo sceicco cieco condannato all'ergastolo negli Stati Uniti per aver organizzato l'attentato del 1993 al World Trade Center. Quel che più inquieta di Morsi sono proprio queste sue evidenti ambiguità. A fine giugno pur di vedersi riconosciuta la vittoria al ballottaggio scende a patti con la giunta militare e i generali guidati dal Feldmaresciallo Hussein Tantawi. Salvo poi deporli grazie al putsch del 12 agosto scorso messo a segno d'intesa con Abdul Fattah el-Sisik, l'ex capo dei servizi segreti militari subito promosso ministro della difesa. Le ambiguità più impertinenti sono, però quelle riservate ad un'Europa e un'America da cui Morsi a continua supplicare finanziamenti pur non avendo mosso un dito per riformare la disastrata economia di casa. Certo, neppure la fedeltà di Mubarak venne via a poco. Per mantenerlo dalla propria parte, garantirsene l'alleanza contro Saddam e preservare i confini d'Israele, gli Stati Uniti e gli europei ne ignorarono soprusi e malversazioni versandogli decine di miliardi di dollari in aiuti. Almeno nel primo decennio di potere Mubarak affiancò politiche del pugno di ferro a cure economiche che garantirono l'accesso alla casa ai diseredati, lo sviluppo turistico e la crescita economica. E si dimostrò fedele e buon alleato fin all'ultimo giorno.
Lo stesso non può certo dirsi di Morsi. In soli 4 mesi ha praticamente archiviato il trattato di pace con Israele, s'è trasformato nel migliore alleato dei fondamentalisti di Hamas e ha lavorato al varo di una Costituzione rigorosamente ispirata alla sharia.
Una costituzione in cui, tanto per citarne una perla, le prerogative dell'eguaglianza femminile non possono superare i limiti fissati dai doveri familiari e dagli obblighi religiosi. Ma il peggio è stato il decreto del 22 novembre con cui s'è proclamato al di sopra dei giudici e della legge. Una pretesa che neppure il Faraone Mubarak aveva mai osato azzardare.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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