Quando la Thatcher ordinò: "L'esercito fermi gli scioperi"

Nel braccio di ferro contro i minatori, la «lady di ferro» pensò anche all'uso dei militari. Il piano era pronto, ma i lavoratori capitolarono

Un salto dal parrucchiere da una parte e un piano dettagliato per mobilitare l'esercito contro i minatori dall'altra. Era fatta così Margaret Thatcher: vanitosa e inflessibile, maniaca della forma e paladina della sostanza, pragmatica e risoluta. E così l'ex premier britannica morta l'aprile scorso a 88 anni riemerge dagli Archivi nazionali, da quella seconda tranche di documenti resi noti dopo trent'anni di segreto di Stato. Una lady sempre «di ferro» di fronte alla nazione, anche quando nel privato i timori per l'esclalation delle proteste selvagge della working class e il crollo del suo sogno neo-liberista rischiavano di prevalere.

È il 1984, l'anno che segnerà la più aspra contrapposizione tra sindacato e governo, l'anno di Orgreave, la «battaglia» in cui cinquemila minatori in sciopero fronteggiano altrettanti poliziotti chiamati a ristabilire l'ordine nello Yorkshire del Sud, cuore operaio dell'Inghilterra. In quell'anno - quando pure i servizi segreti di Sua Maestà entrano nel confronto convinti che l'Unione sovietica stia finanziando la rivolta e foraggiando il sindacato dei minatori - il programma di tagli e privatizzazioni di Lady Thatcher è alla sua partita finale ma la paura di una sconfitta politica e ideologica incombe sul primio ministro e i suoi collaboratori. Così «Maggie» e la sua squadra contemplano anche la soluzione estrema, persino più dura della mobilitazione di migliaia di agenti contro migliaia di operai terrorizzati dall'annuncio del governo di voler chiudere venti miniere di carbone e mandare a casa ventimila lavoratori. Nonostante le smentite ufficiali, in quelle ore cariche di tensione è proprio la «lady di ferro» a scrivere di suo pugno i dettagli di un piano che prevede la mobilitazione di 4500 soldati e 1650 camion in grado di fare irruzione nelle miniere e prelevare e trasportare centomila tonnellate di carbone al giorno necessarie per far funzionare gli impianti e non lasciare il Paese in ginocchio, completamente a corto di energia. Per farlo «Maggie» sa che dovrà chiedere lo stato d'emergenza e che solo la regina potrà proclamarlo.

«Il tempo non è dalla nostra parte» scrive il ministro del Lavoro Norman Tebbit in una lettera «segreta e personale» al capo del governo nel luglio '84, quando anche i portuali si uniscono alle proteste dei minatori e il timore è che le scorte possano esaurirsi entro gennaio. È uno dei momenti neri in cui «Lady T» e i suoi ministri «vedono l'abisso», per dirla con le parole usate nelle corrispondenze del primo ministro. È il momento in cui il panico si diffonde nelle istituzioni, con il capo della Polizia John Redwood che avverte: darla vinta ai sindacati sarebbe «la fine di un governo effettivo» in Gran Bretagna. Ed è una delle rare volte in cui Lady Thatcher sembra esitare. Durante il Consiglio di gabinetto segreto, il Misc 101, «non era chiaro quanto la dichiarazione dello stato d'emergenza sarebbe stata interpretata come un segno di determinazione del governo o un segno di debolezza, né quanto avrebbe aumentato il sostegno dei portuali allo sciopero dei minatori». Dubbi legittimi di un esecutivo che vedeva incombere su di sé il rischio di un crollo politico in grado di trascinare il Paese in un caos ingovernabile.

Alla fine Margaret Thatcher la spunterà. La sua idea di un governo conservatore in grado di ridurre l'ingerenza dello Stato negli affari pubblici, di abbassare le tasse, di tagliare gli sprechi, di fare dell'iniziativa privata e del terziario il motore del Paese, riuscirà a traghettare il Regno Unito fuori dalla crisi economica e occupazionale. La sua tenacia e la sua intransigenza fecero ripartire il Paese, nonostante la lacerazione sociale che l'ex premier si lasciò alle spalle. Il sindacato subì la peggiore sconfitta della sua storia. E lei, lady Thatcher, continuò la battaglia neoliberista fino al '90, quando anche l'Europa conobbe il suo «pugno di ferro» contro l'euro, la moneta unica definita «la più grande follia dell'era moderna».

In quegli anni, raccontano gli archivi di Stato, non smise mai di mostrare al mondo che non era un semplice leader «di ferro» ma era soprattutto una «donna» di ferro: nella sua agenda appuntava sempre l'impegno immancabile della giornata, l'appuntamento dal parrucchiere, tra le 8.30 e le 9 del mattino. Centoventi volte in un anno, una volta ogni tre giorni, anche in quel dannato 1984.

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