Se la Siria abbatte la statua di Assad

Il monumento al padre del dittatore trascinato nella polvere. Ribelli sempre più forti, ma divisi in mille fazioni

Se la Siria abbatte la statua di Assad

Un uomo è la sua bandiera, la sua croce, il suo libro: una statua trascinata nella polvere ha un effetto più forte dello scoppio di un missile, più violento di una strage. Così, non è da sottovalutare l'effetto dell'immagine della statua di Hafez Assad tutta d'oro ieri trascinata nella polvere di Raqqa sul fiume Eufrate. Chi non ha pensato, anche Assad e i ribelli siriani, alla statua di Saddam la cui caduta ne segna la sconfitta? Raqqa è una capitale di provincia nel nord del Paese che è fondamentale oggi conquistare per motivi di collegamento. Ma i ribelli, benché fieri della conquista, dicono che le forze lealiste ancora tengono l'aeroporto a sessanta chilometri dalla città, e un cittadino fa sapere dalla sua zona d'ombra che ancora i ribelli assediano gli uffici dei servizi segreti di Assad.

Lunedì il conflitto aveva lambito anche l'Iraq, mentre i ribelli uccidevano 40 siriani. Altri soldati siriani si erano consegnati agli iracheni; e dalla parte opposta del Paese si è saputo di siriani raccolti feriti dentro il confine israeliano, curati in ospedale e rimessi in segreto dentro i loro confini e anche di kayiushe sparate su Israele. Una grande pericolosa confusione, per non parlare delle decine di migliaia di profughi specie in Turchia: la loro tragedia è l'immagine vivente di come il conflitto siriano rischi di diventare la prossima peste bubbonica del Medio oriente. Una peste non tanto simbolica se si ripensa alle battaglie interne per le armi chimiche, al loro passaggio agli hezbollah, al bombardamento di Israele su strutture cariche di pericoli balistici e forse chimici.

La palla di vetro del futuro siriano è opaca, anche se Bashar Assad declina come un pallido spicchio di luna calante. Di nuovo le sue forze, in risposta all'attacco di ribelli su Raqqa, hanno lanciato un'offensiva contro Homs e Hama, due città centrali, nel territorio che collega la costa occidentale a Damasco. Subito prima un terribile scontro durato otto giorni a Aleppo aveva visto, oltre all'uccisione di 65 ribelli, la strage di 150 soldati o poliziotti come li ha definiti il regime che secondo alcune descrizioni sono stati trucidati in gran parte a sangue freddo. Se sia vero, la storia dirà.

Ci sono due questioni che descrivono lo stato delle cose: Obama sta per venire in Medio oriente ed è certo pentito della gestione del suo primo mandato che cancellò proprio tramite Kerry la politica di severità di Bush, e proprio a Kerry ha fatto promettere, a Roma, un aiuto più attivo ai ribelli: ma per quanto attivo possa essere questo aiuto, se seguita a funzionare in termini «non letali», come recita il politically correct, e in modo non sgradito all'Urss, non sarà effettivo. Obama sa che questo lascerà all'Iran l'illusione di poter restare padrone del destino della Siria con gli hezbollah, un brutto effetto collaterale per la politica estera americana. Inoltre, e qui il secondo punto, ogni giorno i ribelli trovano strade religiose, familiari, etniche, di villaggio, per dividersi in gruppi; si calcolano circa mille unità diversificate sul campo. Gli sforzi internazionali sono invece quelli di dialogare con una voce, quella della Free Syrian Army. Un commentatore del Daily Star di Beirut scrive che sia il Libano, che l'Iraq che la Siria si stanno «ritribalizzando». Alcune frazioni sono formate - dice Alan Philips del National - da «un uomo e suo cugino», e ciascuna si cura di avere a disposizione un video da piazzare su YouTube, alla ricerca di uno sponsor straniero, a volte tanto estremo quanto le loro aspirazioni jihadistiche. Poi, ci sono le grosse organizzazioni ideologiche come Jabhat al Nusra, cui si stanno unendo combattenti palestinesi di Gaza, e altri estremisti da fuori. A fronte di questo la Free Syrian Army su cui punta l'Occidente senza tuttavia fare il passo di sostenerla fino in fondo, rischia di fare inutilmente la parte del bastione degli americani, e di lasciare ai jihadisti la leadership.

La speranza che i 60mila morti non diventino 70mila e poi 100mila in realtà è legata solo all'idea che Assad, o accontentandosi di una zona sulla costa, o andandosene del tutto, faccia cessare la violenza, e rassicuri il Medio oriente (specie l'Arabia Saudita) spaventato dalla possibilità che l'Iran consolidi il suo potere. Questo aprirà altri problemi sulla affidabilità dei ribelli, ma almeno l'Iran e gli hezbollah saranno fuori giuoco.

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