"Faccio Di Vittorio, amo la Finocchiaro"

L’attore Pierfrancesco Favino è il sindacalista nella fiction Rai Pane e libertà: "Era uno stalinista? Sì, ma al di sopra delle parti. Nel Pd avrei preferito Anna a Franceschini, il rispetto per una donna avrebbe abbassato i toni del dibattito"

"Faccio Di Vittorio, amo la Finocchiaro"

Nella zona del parco di Colle Oppio dove abita, Pierfrancesco Favino è molto popolare. Lo conoscono da prima che diventasse un divo e ora partecipano con ironia romanesca al suo successo. Quando vede che ci avviciniamo ai suoi tavolini con vista Colosseo, la proprietaria del chiosco esclama: «Ecco Hollywood». «Il nostro Richard Gere», fa eco il suo aiutante. Un quidam mi tira in disparte e chiede: «Dov’è che l’ho già visto?». «Ieri sera nella fiction di Raiuno sul sindacalista Di Vittorio. Se le è piaciuto, potrà rivederlo stasera nell’ultima parte», rispondo come se io fossi il suo agente e lui la mia creatura. Favino, invece, è imbarazzato e cerca di sgattaiolare.

«Appare in tv, esce nei cinema. Momento d’oro», osservo mentre sediamo a un tavolino isolato.

«Non mi monto la testa, né accetto i privilegi della fama, tipo farmi cedere il posto nelle file e cose così», dice e ringrazia cortese il cameriere che arriva col suo espresso e la mia bibita.

«Mi racconti di lei prima di diventare attore», chiedo e apro il taccuino.

«Ad agosto faccio 40 anni. Romano del quartiere Monteverde. I miei genitori però sono nati in Puglia a pochi chilometri da Cerignola patria di Giuseppe Di Vittorio. È un legame in più che ho con lui», dice e abbassa la voce perché i tavolini accanto si sono riempiti di gente che vuole godersi la giornata primaverile.

«I suoi genitori sono vivi?».

«Papà non c’è più. Faceva il rappresentate di materiali edili. Mamma c’è e ha fatto la mamma. Siamo quattro figli. Io, il minore, e tre sorelle. Un architetto, una storica della scienza e una storica dello spettacolo», poi aggiunge: «Permette?» e stappa il mio succo di frutta versandomelo nel bicchiere.

«Studi?».

«Liceo scientifico e Accademia d’arte drammatica».

«Come mai attore?».

«Credo sia una vocazione genetica. Fin da piccolo ho avuto una passione per Totò, le marionette, ecc. Non era solo un divertimento. Ero affascinato».

«Perché la chiamano Picchio?».

«Copyright di mio padre, per successive abbreviazioni del mio nome: Pierfrancesco, Pierchicco, Picchio. Ha affibbiato nomignoli anche alle mie sorelle con i quali ci chiamiamo tuttora».

«La sua compagna e madre della sua figlioletta è Anna Ferzetti. Un cognome illustre nel cinema».

«È la figlia di Gabriele Ferzetti, attrice anche lei. Ha una parte nella fiction di Di Vittorio. Non ne parlo volentieri, potrebbe sembrare un favoritismo. Invece ha fatto duri provini».

«Lei ha detto: “Ho sofferto per amore. Per me le passioni sono tutto”. Si riferiva ad Anna o ad altri amori infelici?».

«Ho sofferto come qualsiasi adolescente. Senza depressioni però».

«La sua più grande follia amorosa?».

«Una notte mi chiamò una fidanzata capricciosa dicendo che aveva avuto un incidente. In realtà, un nonnulla: una tipica manipolazione femminile. Comunque, mi precipitai. Poi mi accorsi che ero in pigiama».

«Sua figlia si chiama Greta. Omaggio alla Garbo?».

«Nemmeno pensato. Mi piaceva il nome, dolce e forte. Per reazione al mio nome lungo ho pensato di dargliene uno più maneggevole».

«È un tranquillo padre di famiglia o un tenebroso inquietante?».

«L’inquietudine è connessa al mestiere. Lo stress e il fatto che facendo l’attore sei tu stesso la tua azienda, non sono l’ideale per vivere tranquilli. Ma cerco di non essere uno che si porta Amleto a cena. Anche per garantire serenità a mia figlia», dice e si alza per salutare una coppia di amici arrivati con i bimbi al parco. Lo osservo. È un tipo atletico, un po’ rude, con i capelli neri scompigliati.

«Nel suo ultimo film, L’uomo che ama, fa sesso intenso con Monica Bellucci. Più il piacere o l’imbarazzo?».

«Un imbarazzo totale. Già stare con una donna da soli emoziona. Figurarsi quando ci sono davanti ottanta persone».

«C’è un trucco per uscirne?».

«Innanzitutto, ammettere l’imbarazzo. D’altronde, la prima ad avvertirlo è il partner. Finora, però, ho sempre avuto troupe che mi hanno aiutato a sdrammatizzare».

«Ce ne sono invece di maligne?».

«Puoi trovarne di voyeuriste o che si vendicano con l’attore considerato un privilegiato da mettere in difficoltà. Scene hard possono anche suscitare gelosia in famiglia. La provo io stesso quando Anna è costretta dal copione a scene del genere».

«Lei non ha il fisico dell’attor giovane e romantico», gli dico indicando il suo viso un po’ forte con tanto di buco sul mento.

«Meno male. I fortunati col viso romantico durano una decina d'anni. Io non ho limiti di tempo».

«Lei come si definirebbe?».

«Ora, a 40 anni, relativamente fascinoso. Ma non ho un buon rapporto con la mia faccia. Non mi piaccio particolarmente».

«Il regista Alberto Negrin l’ha scelta per Di Vittorio perché ha un viso simile, diciamo vigoroso e bracciantile?».

«In parte. Ma anche per fiducia nelle mie qualità interpretative. Mi aveva già voluto per la fiction su Bartali che aveva un’altra faccia. L’estrema somiglianza tra attore e personaggio, è sviante. Al massimo si dice:“Toh, come sono eguali” e finisce lì. Se invece si entra nel personaggio senza somigliargli, si sollecita di più l’interesse dello spettatore».

«Nella fiction parla pugliese. È doppiato?»

«La voce è mia, perbacco», dice con orgoglio e poiché il sole picchia si toglie la giacca marrone di fustagno.

L’ho vista in tv alla presentazione della fiction al Quirinale. Pendeva dalle labbra di Napolitano.
«Sono un fan di qualsiasi personalità dia lustro al Paese e sia al di sopra delle parti. Lo ero anche di Ciampi».

Ma in particolare di Napolitano, glielo leggo negli occhi.
«Sono orgoglioso di avere lui, con la sua storia, alla presidenza della Repubblica. Anche perché ha saputo rivedere la sua posizione sull'Ungheria».

Di Vittorio, di cui anche è orgoglioso, era stalinista.
«Lo so bene. Ma quello che poi ha fatto come sindacalista lo ha reso un personaggio al di sopra delle parti. Tant’è che anche Gianfranco Fini, come presidente della Camera, ha rilevato questo aspetto. Di Vittorio è un patrimonio della sinistra».

Lei cos’è politicamente?
«Sono cresciuto in una famiglia socialista. Nel senso nenniano del termine».

Lo specifica per distanziarsi da Bettino Craxi?
«Sì. Eravamo più a sinistra del craxismo, ma più moderati dei comunisti. Anche perché cattolici. La mia non era una famiglia ricca e io inclino naturalmente verso quest’area politica».

È l’ennesimo orfanello di Veltroni?
«Lo sono del suo tentativo di dialogare con toni civili».

Alemanno le ha fatto l’omaggio di aprire il Festival romano del cinema 2008 col suo, «L’uomo che ama».
«Non lo ha fatto Alemanno. Del Festival si occupa Gianluigi Rondi e gli altri della giuria che non sono Alemanno».

È acido con il sindaco di An?
«Ho precisato solo perché non è vero quello che ha detto lei. Poi, se mi chiede se il film è stato criticato proprio perché c’era la giunta di destra, le rispondo di sì».

È la partigianeria di sinistra.
«I Festival in Italia sono dei fescennini in cui si consumano vendette».

Le piace Dario Franceschini?
«Avrei preferito Anna Finocchiaro. Penso che il rispetto dovuto a una donna avrebbe abbassato i toni muscolari del dibattito politico. Comunque, le prime mosse di Franceschini sono condivisibili».

Il Cav è un pericolo pubblico?
(ci pensa a lungo, forse perché l’intervista è sul Giornale) «Se lui è lì, è perché l'Italia si vuole rappresentare in un certo modo».

Sarebbe?
«Di questi tempi, la politica vellica gli istinti più bassi. Non è colpa degli italiani. Nelle stesse condizioni, succederebbe ovunque».

Il vellicatore è il Cav?
«La politica di oggi è incarnata da lui, ma non solo da lui. E a me non piace».

Un destro che sopporta?
«Fini ha una statura politica ammirevole. Lo dico pur sapendo da dove viene».

Suo maestro è Sergio Castellitto. Tra gli altri over cinquanta, chi le piace?
«Giancarlo Giannini, un superperito della tecnica recitativa. Toni Servillo, di cui si capisce che fa teatro dalle scelte interpretative nel cinema. Fabrizio Bentivoglio, che ricorda più di tutti Marcello Mastroianni».

Tra i coetanei?
«Elio Germano e Vinicio Marchioni».

È credente?
«Credo nella figura del Cristo, percepisco un ordine superiore delle cose, ma faccio fatica ad abbracciare alcune scelte della Chiesa cattolica, vedi la vicenda Englaro. Però, prego».

Wojtyla o Ratzinger?
«Wojtyla per la capacità comunicativa. Ratzinger ha cultura raffinatissima, ma la sua Chiesa si sta barricando e allontanando dalla base».

Ha un principio guida?
«Onestà e lealtà verso di me e rispetto per gli altri».

Cosa le interessa più del denaro?
«La libertà di espressione. Ho guadagnato di meno per questo. Se avessi fatto scelte più inquadrate e popolari avrei più soldi. Anche se oggi, non ricco, sono un super privilegiato».

Qual è l’idea di lei che dovremmo esserci fatti dall'intervista?
«Parlando di libertà di espressione per me, includo la libertà di giudizio per gli altri. Colpite, pure. Sono nudo come San Sebastiano».

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