IL FALSO PACIFICATORE

IL FALSO PACIFICATORE

Romano Prodi si presenta come «il pacificatore dell'Italia». Via via a scendere leader e partiti del centrosinistra si offrono sul mercato elettorale come coloro che uniscono. Certo, è propaganda. Ma gli slogan esprimono sempre un tasso di verità ed è un errore sottovalutare la presunzione di chi, rappresentando solo una parte politica, sociale o culturale di un Paese, è convinto di poter azzerare differenze, contrasti e conflitti, imponendo il proprio modello all'altra parte. È una presunzione da cui traspare una visione monopolistica del potere, soprattutto se - ed è il caso della breve storia di questo bipolarismo - il centrodestra viene vissuto come un sinonimo di «abuso». Prodi è tornato a pronunciare questo termine in una lunga intervista a Giampaolo Pansa, rendendo esplicito il suo pensiero con una frase chiara: «Un giorno ho definito Forza Italia il partito di quelli che vogliono parcheggiare in seconda fila. Avevo indovinato lo spirito, ma non l'intensità della violazione delle leggi, regolamenti, codici, norme di minima civiltà». Cosa se ne deve dedurre? Se le parole hanno un senso, che una parte dell'Italia è percepita semplicemente come il simbolo della trasgressione di ogni forma di legalità e di coesistenza e, dunque, che la pacificazione equivale alla sua cancellazione. L'opposto dell'altra parola-chiave invocata fino alla noia in questi cinque anni, cioè «coesione sociale».
A lungo gli intenti abrogazionisti del centrosinistra hanno avuto di mira essenzialmente alcune leggi, a cominciare dalla Biagi e dalla Moratti. Nelle ultime settimane il livello dell'«assalto al settimo cielo» - per usare un appropriato slogan maoista - si è spostato direttamente sul conflitto d'interessi e su Mediaset. Negli ultimi giorni si è allargato fino a coinvolgere la metà degli italiani. Ed a innalzarlo non sono più i pasdaran dell'antiberlusconismo, ma il candidato premier in persona. Il che significa alimentare la spaccatura del Paese, capovolgendone però il significato e presentandola come una nuova forma di unione.
Non è una grande novità. È la storia della sinistra di questi anni. Gli scioperi non sono mai stati proclamati per dividere. Le mobilitazioni sociali di questa o di quella categoria, dalle più piccole alle maggiori, in difesa di interessi specifici, sono state sempre presentate come la difesa dell'«interesse generale». Si è teorizzato che la rappresentanza elettorale e che la pluralità della proprietà dei media sono in contrasto con le regole della democrazia. Si è innalzata la bandiera dell'assolutismo dei «diritti civili», indicando nell'avversario il titolare di una loro costante violazione. Si è perfino giunti a derubricare le recenti violenze di Milano a conseguenza della divisione provocata nel Paese dalla Casa delle libertà.
La novità è invece l'intenzione, sempre più esplicita, di fissare una riedizione di quello che una volta si chiamava «arco costituzionale», attraverso un bipolarismo in cui da una parte, la loro, c'è la pacificazione e dall'altra c'è l'illegalità. E in cui solo la loro parte rappresenta la totalità degli interessi e dei valori ammissibili. L'ulivismo è da tempo oggetto di analisi come fenomeno antropologico, psicologico e sociologico. I suoi caratteri e i suoi difetti sono stati ampiamente analizzati, purtroppo invano, anche da studiosi della sinistra.

La sua fenomenologia, chiarita in questa campagna elettorale ormai conclusa, è comunque nitida: rappresenta essenzialmente la politica della divisione, del conflitto permanente e dell'esclusione. È la disunione dell'Italia.

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