Le favole afghane del ministro velista

Il governo italiano si è infilato in un pasticciaccio brutto e non sa come uscirne. Ieri, alla Camera, Massimo D’Alema si è arrampicato, lui che è uomo di mare, in un’impervia scalata sugli specchi, ma senza successo. Nel tentativo di eliminare le ombre che gravano sulla trattativa per la liberazione del giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo, il ministro degli Esteri ha sostenuto una versione così poco credibile da lasciar adito ad altri e ben più gravi sospetti.
Intendiamoci: nessuno di noi pensa che le persone sequestrate negli anni passati, Irak o Afghanistan fa poca differenza, siano state rilasciate grazie all’abilità diplomatica. Lo sanno anche i sassi che per ogni rapito lo Stato – via Sismi o Croce rossa – ha pagato. In denaro o in medicine.
Non mi stupisco dunque per la trattativa e neppure per i soldi dati ai talebani. Ciò che mi colpisce è il mix di cinismo e sprovvedutezza con cui è stata condotta l’operazione. L’indifferenza con cui il governo ha affrontato il rapimento dei compagni di sventura di Mastrogiacomo è sotto gli occhi non solo degli italiani, ma del mondo, e le condoglianze di Romano Prodi per l’assassinio dell’interprete dell’inviato di Repubblica sono lacrime di coccodrillo.
A ciò s’aggiunge la spregiudicatezza della trattativa, che ha costretto il governo Karzai alla liberazione di un gruppo di terroristi. Ieri il ministro degli Esteri, nel tentativo di minimizzare il pasticciaccio brutto di cui s’è reso complice, ha detto che a essere scarcerati sono stati dei talebani di «limitata pericolosità». D’Alema ha scaricato sul governo di Kabul l’intera responsabilità della scelta, sostenendo che il ruolo del nostro esecutivo è stato di semplice messaggero. Ora, è assolutamente certo che il ministro degli Esteri si reputi molto intelligente ed è altrettanto sicuro che consideri gli italiani in gran parte tonti (nell’esercito di cretini, ovviamente, arruola la maggioranza dei suoi colleghi), ma stavolta D’Alema ha esagerato. La sua versione si scontra con ciò che lo stesso presidente afghano ha dichiarato. Karzai, meno di una settimana fa, ha detto di essersi piegato alle pressanti richieste di Prodi per evitare una crisi di governo a Roma. Più di un giornale estero ha scritto delle minacce di ritiro delle truppe italiane qualora, senza la scarcerazione dei cinque terroristi, la vita di Mastrogiacomo fosse stata messa in pericolo. D’Alema, ieri, sostenendo che i talebani liberati non erano pericolosi, ha finto di ignorare che alcuni di loro appena fuori hanno immediatamente imbracciato i kalashnikov.
Le parole del ministro degli Esteri sono un misto di arroganza e finzione. Ma a sconcertarmi è l’incompetenza. Dopo aver smantellato il nostro servizio di intelligence, il governo per risolvere il caso Mastrogiacomo s’è inginocchiato di fronte a Gino Strada senza valutarne le conseguenze politiche, anzi, stringendo con lui un patto. Il direttore di Repubblica Ezio Mauro, che al fondatore di Emergency deve l’incolumità del suo inviato, ieri lo ha ammesso: «Gino Strada giustamente ritiene che si sia venuti meno ai patti».

Invece di raccontare al Parlamento, e al Paese, favole afghane, il Massimo, anzi il minimo, della diplomazia italiana dovrebbe avere il coraggio di ammettere i fatti, anzi, i patti. Perché, nonostante lui sia convinto del contrario, l’intelligenza non è un suo esclusivo monopolio.

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