«L'imputato si dichiara dispiaciuto dell'accaduto ma di fatto ha svolto fino alla fine una difesa mirante a denigrare le sue vittime, a farle passare per ragazze disinvolte e pronte a vendersi, mentitrici, volontarie assuntrici di sostanze da sballo, assetate di profitti, occasioni di lavoro. Non c'è nulla di autentico nella sua contrizione, che risulta piuttosto scelta strategica per ottenere un più benevolo giudizio: di fatto egli continua a denigrare e trattare le sue vittime come oggetti privi di morale e di dignità».
È uno dei passaggi con cui i giudici di Appello hanno motivato la sentenza che il 5 giugno ha condannato a 9 anni di reclusione (15 anni e 6 mesi in primo grado) Antonio Di Fazio (nella foto), il manager imputato per sei episodi di violenza sessuale, sempre con l'utilizzo di benzodiazepine. Il collegio, interamente femminile, sottolinea: i fatti «sono di particolare gravità e di singolare attuazione, rivelando una personalità criminale capace, determinata nell'attuazione delle proprie condotte».
Di Fazio, per i giudici, aveva messo a punto un «sistema criminale idoneo a far cadere nella sua rete numerose vittime, per lo più giovanissime donne irretite dalle sue promesse, dai suoi contatti, dalla esibizione delle sue possibilità economiche (vere o fasulle che fossero), dal suo patrimonio immobiliare, rassicurate dalla sua famiglia pronta ad accoglierle in un contesto apparentemente normale ma agiato e promettente».
L'imputato cercava solo «la disponibilità di corpi giovani per la sua soddisfazione sessuale». E non avrebbe «affatto riconosciuto né la commissione di reati, né il disvalore delle sue condotte» e neppure avrebbe «iniziato un serio percorso riabilitativo».
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