FEDERALISMO SÌ, STANGATE NO

Il federalismo fiscale è, come principio, quanto di meglio si possa immaginare, in uno Stato moderno, per una equa distribuzione delle risorse. Le varie aree del Paese vengono responsabilizzate, le loro disponibilità finanziarie non dipendono più dal buon volere del potere centrale, i virtuosi sono gratificati e i dilapidatori penalizzati. Secondo i fautori di questa riforma fondamentale sarà possibile realizzare, grazie a essa, un forte risparmio sulla spesa pubblica. È affermato nella premessa al disegno di legge che «un sistema di finanza derivata, con ripiani a piè di lista alle amministrazioni inefficienti o con criteri basati sulla spesa storica, finisce per premiare chi più ha creato disavanzi». Parole sacrosante. Non è il caso d’essere disfattisti, negando pregiudizialmente ogni possibilità di riuscita al progetto di Calderoli.
Tutti gli italiani che amano il loro Paese saranno felici se verrà coronato da successo. E vogliono prestare fede, anche se il passato prossimo o remoto è gremito di delusioni, alla clausola finale secondo cui «l’attuazione della presente legge non potrà comportare oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato e la finanza pubblica nel suo complesso». E tuttavia, dopo una lettura non da esperto ma da cittadino comune della bozza approntata dal ministro per la Semplificazione, mi sono venute a mente alcune osservazioni (lo scrivo ben sapendo che l’essere ministro per la Semplificazione in Italia è un impegno al cui confronto le fatiche d’Ercole diventano pause di relax).
Prima osservazione. Nelle sintesi delle agenzie la bozza somiglia molto a un elenco di nuove tasse. Chiamate con il loro nome oppure camuffate con termini come «razionalizzazione dell’imposizione fiscale relativa agli autoveicoli e alle accise sulla benzina e gasolio» e «razionalizzazione dell’imposizione fiscale immobiliare». Il contribuente sa, per amara esperienza, che quando di parla di razionalizzazione a proposito di tasse è in arrivo, piccola o grande, una stangata.
Seconda osservazione. Alcune norme del disegno di legge hanno l’obbiettivo di «riconoscere un’adeguata autonomia impositiva alle province». Ma allora, dopo tanti annunci di abolizione, le province ce le teniamo, e anzi ne avremo di nuove perché l’alacre fantasia dei notabili locali è sempre all’opera nel varare enti inutili? A occhio e croce si direbbe che questa sia una vittoria non del nuovo ma della vecchissima politica distributrice di poltrone.
Terza osservazione. Sono previste sette aree metropolitane (Roma, Milano, Firenze, Bologna, Torino, Napoli e Genova, in forse Bari e Venezia). Non Palermo, a quanto m’è parso di capire, perché le regioni a statuto speciale non sono coinvolte nella riforma. Personalmente m’illudevo che tra gli obbiettivi primari del federalismo fiscale vi fosse proprio la fine delle regioni a statuto speciale, la cui esistenza ha prodotto disuguaglianze scandalose e sprechi demenziali.
Quarta osservazione. Nemmeno il ministro per la Semplificazione riesce a semplificare il burocratese, ostico se possibile ancor più del suo natio dialetto bergamasco. Cito dall’articolo 7 riguardante il calcolo del fondo perequativo a favore delle regioni.


«La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile etc. etc.». Il resto è più o meno adeguato a questo campione. Auguri a Calderoli, avrà il suo bel da fare.

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