"Fedra", una passione ai limiti dell'essere che torna in scena in stile colto e raffinato

Innovative la regia di Tiezzi e la recitazione della Ghiaurov

"Fedra", una passione ai limiti dell'essere che torna in scena in stile colto e raffinato
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«Fedra» di Racine, in scena al Teatro Strehler da oggi al 17 Aprile, si consiglia di vedere per quattro motivi: per la traduzione di Giovanni Raboni, per la colta e raffinata regia di Federico Tiezzi, per la straordinaria interpretazione di Elena Ghiaurov e per capire come si sia evoluto il personaggio da Euripide a Seneca a Racine. Certamente si tratta di una delle tragedie con più traduzioni, in Italia ricordiamo quella di Giuseppe Ungaretti per Diana Torrieri, ma è anche una delle più riscritte, adattate, analizzate, tanto da scomodare la psicoanalisi benché, nelle Opere di Freud, non sia mai citata. Eppure esiste «il complesso» di Fedra, come esiste il «complesso» di Edipo, perché, in entrambe le tragedie, appaiono ben visibili i conflitti affettivi che sfociano in quei mostruosi accoppiamenti che sono causa delle nostre nevrosi. In una simile prospettiva, Fedra ben si adatta ad un regista che voglia esplorare i conflitti di un desiderio tossico che, tra amore e repressione, specie se c'è di mezzo l'incesto, quello di Fedra per il figliastro, quello di Edipo per la madre, va cercando, nel mito, le origini delle elaborazioni psicanalitiche moderne.

Federico Tiezzi, dopo una attenta documentazione, a cominciare dal libro di Francesco Orlando, dedicato a Fedra e al Misantropo, si è ispirato, per la sua messinscena, ad un freuidismo rivisitato con gli occhi di Lacan e ci ha dato una interpretazione che si distacca dalle precedenti, a cominciare da quella di Ronconi, il primo committente della traduzione di Raboni, andata in scena nel 1986, sotto l'egida del Teatro Stabile di Torino, protagonista Annamaria Guarnieri che, con misura, evidenziò certe nevrosi del personaggio, del resto, Ronconi aveva già curato la regia di «Fedra», quella di Seneca, con Lilla Brignone e Gianni Santuccio, nel 1967.

A dire il vero Raboni, nella sua traduzione, aveva tenuto conto di questo, tanto da averlo mostrato nell'uso del linguaggio che rispettava la formula raciniana: «Parler c'est faire», ovvero l'azione è solo nel linguaggio, attraverso il quale si possono spiare il turbamento, la passione, l'eros, la colpa, il castigo. Solo che, se ai tempi di Euripide e di Seneca, il colpevole doveva rispondere al tribunale degli dei, da Racine in poi doveva rispondere soprattutto al tribunale degli uomini.

C'è ancora da dire che Fedra ebbe una rivisitazione, dello stesso Raboni, per l'edizione dello Stabile di Genova (1999) regia di Marco Sciaccaluga, con Mariangela Melato, con una partitura lessicale più ricca di ambiguità, perché le parole, dette da Fedra, risentivano di quella tortura che lei stava vivendo per la sua passione incestuosa, tortura attenuata da Tiezzi che concede alla Ghiaurov una recitazione molto sentita, attenuata, però, dalle parti cantate, da uno spazio scenico raffinatissimo, diviso in due da un sipario dorato, trasparente, e dalla scelta di una architettura luminosa, arricchita da grandi candelabri che scendono dall'alto e che si tingono di rosso nel momento in cui scoppia l'irrefrenabile passione.

Ma, soprattutto, per le scelte musicali che fanno da contrappunto emotivo e per i costumi che rimandano a una situazione quasi metafisica. Quando si cade in rovina, i discorsi sembrano vani, per questo motivo si cercano, in soccorso, altri referenti artistici e Tiezzi ne è un ottimo conoscitore.

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