Il Festival celebra "Faber" ma Dori Ghezzi boccia il film

La moglie dell’artista, che produce il documentario "effedia", critica la pellicola su Genova tratta da Un destino ridicolo. Nell'opera firmata da Teresa Marchesi il temperamento anarcoide del cantautore

Il Festival celebra "Faber" ma Dori Ghezzi boccia il film

Roma - I festival cercano documentari e film connessi con la musica. Quello di Roma ha trovato in Fabrizio De André il suo personaggio, perché i suoi ascoltatori più devoti appartengono alle classi dirigenti e sono ancora quasi tutti vivi, oltre a identificarsi con l’epoca contestataria che resta il mito della avanzata maturità che ingrigisce ma non placa la nostalgia cinefilica.

I colleghi cantanti e i giornalisti che l’hanno incontrato lo evocano come Faber, per esprimere l’intimità che avevano con lui. Ma lui, in genere, non aveva una grande opinione dei colleghi e ancor meno amava la stampa. Teresa Marchesi, che l’aveva intervistato per la Rai-Tv, è impeccabile nella costruzione del suo documentario, effedia (volutamente tutto minuscolo, sviluppo dell’acronimo FDA). La Marchesi, che vuole sinceramente bene a De André, si tiene dietro le quinte, lasciando sullo schermo solo lui.

Alla lezione di stile, s’unisce la ricerca d’archivio. Così effedia restituisce anche il De André meno noto al pubblico postumo: quello in bianco e nero, in giacca e cravatta bianca o in golf giro-collo di cachemire, l’uniforme della jeunesse dorée di quaranta-cinquant’anni fa, quando chi nasceva a Genova, quartiere di Castelletto, sapeva che avrebbe sposato solo chi nasceva nei quartieri di Carignano o in Albaro. E viceversa. De André - figlio di un noto dirigente d’azienda - discendeva dall’aristocrazia venale, ma quella più seria, ancora modellata sull’aristocrazia del sangue. Ne aveva pregi e difetti: sotto l’apparenza della cordialità di casta, dell’eleganza ripetitiva ma sobria, nutriva un disprezzo degno di Thomas Mann per gli altri borghesi, fino ai limiti dell’odio di sé. Dunque, quando usciva dal suo mondo, De André ne cercava uno opposto. Si spiega così la sua simpatia anarchica pre-sessantottarda.

Le inclinazioni di bohèmien mettevano De André a contatto con chi andava generalmente sotto il nome di «legère». Lo si coglie dal film Amore che vieni, amore che vai di Daniele Costantini, ispirato al romanzo di De André e Alessandro Gennari Un destino ridicolo (Einaudi) e presentato anch’esso al Festival di Roma. Mantenere il titolo del libro avrebbe reso più chiaro il contenuto del film, ambientato nella Genova del 1963, quando De André aveva ventitré anni. Ma questo non è un film su di lui, quanto un film sul popolino che incrociava nelle sue proiezioni nei bassifondi. Si parte da un giro di prostitute, gestito da un ex garzone di bar senza phisique du rôle (Fausto Paravidino); si approda a una «stangata», che non darà gioia a nessuno dei personaggi principali: il bandito sardo di Filippo Nigro e la sua amante Donatella Finocchiaro, poi il bandito «francese» (Massimo Popolizio) che parla italiano meglio degli altri.
Girato in esterni a Genova, Amore che viene, amore che vai propone accattoni, derelitti e velleitari. Ma quello che funziona sulla pagina non sempre funziona sullo schermo, anche perché, a cominciare da quello di Paravidino, nel film non c’è un personaggio trascinante. La ricostruzione d’ambiente propone vagoni di terza classe, quando essa era stata da tempo abolita, e una «Giulia» Alfa Romeo quando quell’auto era nella mente dei progettisti.

Come madre/aiutante del pappone, Agostina Belli è impresentabile come genovese: l’accento vero l’ha solo il barista che caccia, giustamente, Paravidino.
Compagna di De André, produttrice di effedia, Dori Ghezzi, ha stroncato Amore che vieni, amore che vai. Costantini s’è offeso, ma, invece di risentirsi, dovrebbe far tesoro della lezione.

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